Vita del Venerabile Servo di Dio, Frat'Umile da Bisignano

Da Besidiae.
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Vita del Venerabile Servo di Dio, Frat'Umile da Bisignano


Copertina

VITA

DEL VENERABILE SERVO DI DIO

FRAT' UMILE DA BISIGNANO

Laico professo nell'Ordine dei Minori Riformati

NARRATA IN COMPENDIO

DAL P. ANTON-MARIA DA VICENZA

LETT. TEOLOGO DEL MEDESIMO ORDINE

NELLA PROVINCIA DI S. ANTONIO DI VENEZIA

BOLOGNA

TIP. PONTIFICIA MAREGGIANI

1872


Protesta dell'autore

Trattandosi in questo Compendio non solo delle virtù eroiche del Ven. Servo di Dio Frate Umile da Bisignano, già riconosciute per tali dalla S. Sede, ma eziandio dei miracoli non ancora approvati; per ubbidire ai Decreti della s. m. di Urbano VIII e della S. R. U. Inquisizione, l'autore si protesta che questi non hanno per base che la sola fede umana, dovendosi riconoscere soltanto dalla stessa S. Sede, di cui egli si dichiara ubbidientissimo figlio.

Proprietà Letteraria

Con Approvazione Ecclesiastica


Prefazione

La vita del Venerabile Servo di Dio Frat' Umile da Bisignano presenta tale un complesso di meraviglie che non riesce facile trovarne un'altra, colla quale si possa istituirne confronto. La battesimale di lui innocenza non appannata mai da neo di colpa, l'esercizio costante d'ogni più ardua virtù e le austerità straordinarie da lui praticate, che gli vennero abbreviando i giorni, quasi scompariscono in faccia ai doni singolarissimi, di cui il supremo Datore d'ogni bene si compiacque per sua liberalità di arricchirlo. Si direbbe che Iddio volesse porgerci in Frat'Umile un saggio di quella vita di beatitudine, che godono i celesti comprensori, mentre, come attestò lo stesso Pontefice Pio VI nell'approvarne le virtù, anziché terrena, tutta angelica e di paradiso fu la vita, che questo avventurato figlio di S. Francesco menò sulla terra, essendo stata un'estasi poco men che continua, da cui solo la voce dell' ubbidienza poteva staccarlo.
Or poiché ci è lecito sperare non lontano il giorno, in cui dall' oracolo del Vaticano gli saranno concessi gli onori dei Beati, parve opportuno e non senza qualche utilità che si venisse ridestando nei fedeli la memoria di sì gran Servo di Dio, A questo scopo viene pubblicato il presente Compendio, nel quale l'Autore fedelmente si attenne ai Processi Apostolici e ai biografi contemporanei al Venerabile.


Capo I
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Nascita ed adolescenza del Servo di Dio.

Bisignano, piccola ma antichissima città vescovile, situata nel centro della Calabria Citeriore, fu P avventurata patria del glorioso Servo di Dio Frat' Umile, di cui imprendo a descrivere in compendio la vita. Ei vide la luce il giorno 26 Agosto del 1582, ed ebbe a genitori Giovanni Pirozzo e Ginevra Giardino, appartenenti entrambi ad onesta e non disagiata famiglia. I quali, poiché erano fervorosi cristiani, furono solleciti di far rigenerare nelle sante acque battesimali il loro bambino, a cui imposero il nome di Luca Antonio: e fin d'allora considerando in esso un prezioso deposito, che Iddio affidava alle loro cure, affinchè lo venissero allevando nel suo santo timore, si diedero ogni pensiero per instillargli insieme col latte i germi della pietà e della divozione. Quantunque, a dire il vero, oltre del sentimento del proprio dovere, non poco, io credo, v' abbia pur anco contribuito il ravvisare nel beato pargoletto fin dai primi giorni di sua vita dei segni evidenti di una speciale predilezione del Signore verso di lui, e alcuni non oscuri presagi della santità eminente, a cui in appresso nella sua misericordia infinita intendeva di elevarlo. Dei quali uno si fu quello di non voler egli di giorno più che due volte, e di notte una solamente succhiare alle poppe materne, il qual metodo costantemente ei tenne malgrado le carezze, che l'amorosa genitrice gli usava per indurlo a prendere il latte più spesso. Oltre a ciò si è pure osservato che, ancor tra le fasce, se accadeva per avventura ch'egli piangesse, nessuna cosa poteva acquietarlo, se non fosse stata qualche sacra immagine o di Gesù Crocifisso o della Immacolata sua Madre; ed era una tenerezza il vederlo lasciare in sull' istante il pianto e farsi tutto giulivo appena gli si appressava quella immagine. Una volta, ed era in sui tre anni, intese dal padre che gli Angeli in Cielo lodano Iddio cantando il trisagio Sanctus, Sanctus, Sanctus; e la bellezza di questa lode talmente lo rapi che non si saziava poi mai di cantarla. Guai però se il padre o la madre o qualunque altro gli avessero posta in mano una qualche moneta ; avresti pensato che un gran male lo avesse incólto al vederlo abbandonarsi d' un tratto ad un dirottissimo pianto, e gettar lungi da sè sdegnosamente quel denaro. Il quale abbonimento ai denari tanto coll'andare degli anni venne in lui crescendo, che mai non arrivò a conoscerne il valore; anzi se avveniva talora che a lui fosse consegnata la mercede per pagarne gli operai, il più delle volte al momento di doverla consegnare si accorgeva di non averla più. Il che troppo spesso ripetendosi per volerlo giudicare fortuito, tutti lo ebbero in conto di sovraumano, e forse egli veniva con ciò preludendo a quella strettissima povertà, che un altro giorno avrebbe solennemente giurato appiè dei sacri altari.
Con siffatti auspicii egli era bene ad aspettarsi di cose grandi dal nostro Luc' Antonio, arrivato che fosse all'uso della ragione. E buon per lui che fin dai primi passi, che dar doveva nella via della santità, ebbe a trovare un eccellente maestro di spirito. Era questi il suo parroco medesimo, un D. Marco Antonio Solima, sacerdote altamente commendato dai suoi contemporanei per ispecchiata virtù, il cui magistero di quanto profitto sia stato per Luca Antoni, ne rende ampia testimonianza la santa vita da lui condotta nel secolo. Poiché il nostro giovanetto si mostrava tanto rispettoso verso i suoi genitori, che mai non usciva di casa senza prima chieder loro la benedizione e baciarne i piedi: assisteva ogni giorno alla santa Messa, ed ogni sera riceveva dal suo direttore il punto della meditazione pel di seguente. Tre volte poi per settimana digiunava a pane ed acqua; e quando era mandato alla campagna a guardare gli armenti o a lavorare nel terreno, come gli era consentito di avere qualche momento libero, tosto si appartava in qualche luogo dà non poter essere veduto, e, formatasi ivi di due rozzi rami una croce, davanti alla medesima genuflesso si poneva adorare, nel qual esercizio la sera, benché spossato della persona per le fatiche sostenute l'intera giornata, molto a lungo vi durava, essendo solito anche di unire alle preghiere altri santi esercizii di flagellazioni e discipline.
Queste pratiche però di penitenza più di frequente e con maggior rigore egli le esercitava in una sotterranea grotticella di casa sua, dove per sua divozione si aveva adattato un piccolo altare. Quivi adunque nel più fìtto della notte egli era solito discendere, e lunghe ore vi passava alternando le preghiere vocali colle più severe mortificazioni, e deliziandosi nella contemplazione delle celesti verità. Non è però a credere che tali dolcezze dello spirito nulla costassero al nostro giovanetto dalla privazione del sonno in fuori, imperocché il demonio, invidioso dei rapidi progressi ch'egli faceva nella perfezione, non lasciò intentata arte alcuna per distoglierlo da sì virtuosi esercizi; e quella grotta fu testimone sovente di dure lotte e di splendidi trionfi da Luca Antonio riportati sul nostro comune avversario.
Ardentemente intanto il fervoroso garzoncello sospirava di unirsi più intimamente col suo Dio nel SS. Sacramento dell'Eucaristia; e poiché per la troppo tenera età non gli era permesso di far paghi i suoi desiderii, procurava almeno di supplirvi coir intrattenersi il più che gli era possibile davanti al sacro tabernacolo in amorosi colloquii collo sposo divino dell' anima sua. Allorché poi, giunto all'età conveniente, fu ammesso a partecipare a quel celeste banchetto, oh! da quale piena di affetti fu sovrappreso quel cuore innamorato di Gesù. D'allora egli prese il costume di accostarsi all' eucaristica mensa ogni di festivo, lo che faceva sempre a piedi scalzi, per sentimento d'umiltà, riconoscendosi indegno di albergare nel suo petto ospite sì santo.
A coltivare sempre più la pietà diede anche il suo nome ad una Confraternita eretta già nella sua patria sotto la protezione dell* Immacolata Concezione di Maria, dove egli addivenne ben presto lo specchio e l'ammirazione di tutti non meno pel suo fervore che per la sua profonda umiltà. La quale virtù, quanto fin d'allora fosse in lui ben radicata, lo diede a conoscere nell'occasione che, essendogli stata data una guanciata solenne in sulla pubblica piazza di Bisignano da un cotale a torto credutosi da lui offeso , il virtuoso giovanetto, nonché dar segno di turbarsene, offri tosto l'altra guancia al villano offensore, e prostratosi ai piedi di lui, gliene rese grazie perchè lo aveva trattato secondo che meritavano i suoi peccati.


Capo II
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Vocazione del Servo di Dio allo stato religioso: santa vita da lui condotta nel secolo.

La grazia del Signore, che si mirabilmente aveva prevenuta nelle benedizioni di sua dolcezza il nostro giovanetto, non mancò di venirgli in soccorso anche in quella pericolosissima età, in cui molti purtroppo, o trascinati dalle passioni, che si suscitano gagliarde, o pervertiti da conversazione di licenziosi compagni, fanno miseramente getto di quella innocenza, che fino a quel punto avevano mantenuta illibata. Luca Antonio, essendo già in sul diciottesimo anno di età, seriamente cominciò a pensare allo stato di vita, che doveva intraprendere; e poiché questo è affare di somma importanza e da consultarsi principalmente con Dio, raddoppiò a tal fine le austerità e le preghiere. Nè andò molto che esse vennero esaudite in un modo al tutto singolare. Imperocché un bel giorno che stava guardando i suoi armenti, i quali pasturavano presso un luogo detto di S. Nicolò poco discosto da Bisignano, un'ora dopo il meriggio egli udì, senza poter vedere donde partisse, una voce chiara e distinta, che per tre volte gli disse: Luca Antonio, io voglio esser servito da te. La stessa misteriosa voce fu intesa anche dal confessore, a cui fu pur rivelato ch'ei si renderebbe figlio di san Francesco, ma che prima di vestirsi delle sue divise avrebbe dovuto passare nove anni in grandi travagli.
Lieto adunque Luca Antonio per avere conosciuta la divina volontà, ma insieme dolente al vedersi differito si a lungo l'ingresso alla santa religione, si propose intanto di profittare ogni di più nelle virtù cristiane, intraprendendo un tenor di vita molto più fervoroso che non per lo innanzi. Infatti, oltre ai maltrattamenti accennati, dopo questa divina chiamata cominciò a tormentare più duramente il suo corpo col sottrargli il necessario alimento, non concedendogli che puro pane ed acqua una sola volta al giorno; anzi parendo al fervoroso giovane che quella scarsa misura d'acqua fosse soverchia delicatezza, ebbe l'animo di privarsi anche di sì meschina soddisfazione nei più forti calori di agosto; se non che, troppo sentendosi la natura oppressa per tale privazione, dopo otto giorni gli fu forza di dimettere l'ardua prova. Nondimeno in quanto al cibarsi di solo pane ed acqua, ei seppe durarvi costante per ben nove anni, cioè fintantoché entrò in convento, dove pure continuò in tal metodo, dal quale non si scostava se non allora che i Superiori prudentemente gli rallentavano un sì eccessivo rigore. E il suo stomaco si era ormai cosi abituato a tale astinenza che, avendogli una volta un nuovo confes- sore comandato di mangiar carne, in tutto il tempo che per ubbidirgli ne mangiò, ebbe a soffrire dolori fierissimi, non potendo il suo stomaco ritenerla. I quali dolori egli pazientemente sopportò per ben due mesi, e forse più a lungo sopportati gli avrebbe, se intanto non gli fosse un giorno apparso un religioso di S. Francesco, il quale gli rammentò il proposito da lui fatto di non cibarsi che di pane ed acqua; il che saputo dal suo confessore, gli ritirò il divieto lasciandogli piena libertà di digiunare a suo talento.
Ma la vita da Luca Antonio menata nel secolo, quanto fu degna di ammirazione per l'eroismo delle virtù da lui esercitate, altrettanto e forse più ancora lo fu pei favori singolari, con cui a Dio piacque d' illustrarla. Già fin d' allora ei venne elevato a contemplazioni altissime, e gli fu concesso il dominio sulle creature irrazionali, e apparve dotato del dono dei miracoli. Guari istantaneamente un suo cugino tutto attratto nelle mani e nei piedi col solo prenderlo per mano ed intimargli nel nome di Dio onnipotente che si alzasse. Un lupo affamato col solo scontrarsi in lui divenne mansueto come un agnello. Una volta egli cadde col cavallo nel fiume Crate, ed essendo dalla furia delle onde travolto e portato al fondo, non appena invocò i nomi santissimi di Gesù e di Maria, miracolosamente fu sollevato a galla e scampato da quel pericolo. Un'altra volta invece, il che è ancora più maraviglioso, dovendo passare il fiume, che scorre per mezzo di Bisignano, camminò sopra le acque e arrivò all' opposta sponda a piedi asciutti. Oltre a ciò conosceva lo stato delle anime, che uscivano di questa vita, vedendo quelle che si salvavano sotto la forma di una risplendente e vaga nuvoletta, e quelle che si dannavano sotto la forma di una nuvola nerissima.


Capo III
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Il Servo di Dio entra nell'Ordine di S. Francesco, e vi professa solennemente.

Finalmente, come a Dio piacque, dopo nove anni di contraddizioni d'ogni maniera, Luca Antonio giunse a superare tutti gli ostacoli, che si frapponevano all'adempimento dei suoi santi desiderii. Vero è però che come fu in sul punto di accommiatarsi dalla famiglia, di cui era il sostegno, la madre e le sorelle più con lagrime che con parole gli diedero un nuovo assalto. Ma egli, sostenuto dalla grazia, non si lasciò sedurre dalla carne e dal sangue, ed esortatele a riporre la loro confidenza in Dio, se ne parti alla volta di Dipignano. Dove accolto in santa carità ed accettato dal P. Custode dei Minori Riformati, il primo giorno di settembre dell' anno 1609, contando allora ventisette anni di età, per mano del P. Leone da Castiglione in condizione di fratel laico fu vestito delle serafiche lane col nome di Frat'Umile. Di là venne subito trasferito all'altro Convento di Mesoraca a farvi il noviziato sotto il magistero del P. Antonio da Rossano.
Non si può descrivere a parole la contentezza di Frat'Umile, allorché si vide finalmente nella casa del Signore e vestito del sacro abito di S. Francesco: e confrontando la felicità presente colle passate angustie, gli parvero allora un nulla e assai bene spesi quei nove anni di tribolazioni e di travagli. E riflettendo altresì che il mutar delle vesti significava la mutazione, che internamente doveva farsi dell' animo, e lo spogliamene totale dell'uomo vecchio, si diede tosto con tutto l'impegno a rinnovarsi nello spirito e ad informarsi a quell'esimia santità, a cui Iddio coll'invitarlo al chiostro aveva inteso di chiamarlo. Non solamente adunque egli non rallentò punto del suo fervore, ma anzi, quasi il fatto fin qui fosse poca cosa, raddoppiò la vigilanza sopra sé stesso, alle austerità di prima altre ancora ne aggiunse, e, proponendosi a modelli da imitare i più grandi Santi del suo Ordine, in breve non solo addivenne oggetto di ammirazione presso i suoi confratelli, ma i più provetti stessi si lasciò di lunga mano addietro nel sentiero della virtù. Basti in prova di ciò il seguente fatto, dal quale si scorgerà anche chiaramente quanto fin d'allora fosse cara a Dio quest'anima. Mentre un giorno il santo novizio trattene vasi nell'orto insieme col maestro e coi compagni in ragionamenti di spirito, il maestro gli disse: Frat' Umile, vedi quell'uccelletto, che su quei rami tanto soavemente gorgheggia? Se tu fossi daddovero cosi ubbidiente ed umile come lo indica il tuo nome, ben facile ti sarebbe farlo discendere tra le tue mani e presentarmelo. E il buon novizio, pensando che quelle parole contenessero un precetto, senza esitare un momento si fece con tutta semplicità ad invitare nel nome di Dio quell'animaletto, il quale, essendogli tosto volato nelle mani, lo consegnò in ginocchio al maestro, lasciando ognuno stupefatto, non so se più per la novità del prodigio, o per la santità di chi lo aveva operato. Da tutto ciò non è a dire quanto i suoi confratelli ne andassero consolati, ben prevedendo da tali indizii l'alto grado di perfezione a cui col tempo egli sarebbe salito, se ancor novizio vi faceva sì rapidi progressi.
Ma il demonio non si ristette dal molestarlo in varie guise anche nell'anno del noviziato, non solo per indurlo a lasciare l'incominciato cammino, ma eziandio per farlo apparire presso gli altri religiosi poco men che scimunito e perciò non atto pel loro Istituto. E veramente queste molestie, a lungo andare, gli produssero nell'anima una grandissima diffidenza, la quale, contro ogni suo volere, non gli permetteva di attendere ai suoi uffizii con quella diligenza ed alacrità, che da un novizio si sarebbe voluto. Di qui i suoi confratelli cominciarono a venire in timore non forse quella smemoratezza dipendesse in lui da pochezza di mente, e giudicandolo inetto per la religione, erano fortemente dubbiosi se si dovesse o no ammetterlo ai santi voti. Intanto a vieppiù confermarli nei concepiti dubbi avvenne che, approssimandosi il termine del noviziato, fosse chiamato, com'è costume, a subire l'esame intorno alla dottrina cristiana e alla santa Regola, che stava per professare. Ma sia che per l'abituale perturbazione della mente prodottagli dalle diaboliche infestazioni non abbia potuto mai apprendere quanto il suo maestro gli veniva insegnando , sia che per artifizio pur diabolico gli sfuggisse in quel momento dalla memoria ciò che aveva appreso, il fatto si fu eh' egli arrivò alla vigilia del giorno dell'esame senza saper verbo di quello, su cui l'indomani doveva essere interrogato. E poiché vi è legge che non si possa ammettere alla professione chi sufficientemente non soddisfaccia al prescritto esame, la comunità religiosa era ormai persuasa che Frat'Umile si sarebbe dovuto licenziare, ed egli stesso ne fu di ciò avvisato dal suo maestro, affinchè ne avesse raccomandata la cosa a Dio, il quale solo avrebbe potuto toglierlo da quell'angustia. Il buon novizio, conoscendo di non potere senza una speciale assistenza del cielo rispondere alle interrogazioni, che gli sarebbero state fatte, si rivolse pieno di fiducia alla sua cara Madre Maria. Recatosi pertanto ad ora ben tarda in Chiesa, credendo di essere solo, innanzi ad un immagine di lei con figliale confidenza cosi la pregò: Madre santissima , i frati non mi vogliono dare i voti per la professione, se non so la Regola e la dottrina cristiana. Io a ciò mi conosco inabile; ma Voi ben sapete che io mi sono dedicato a Voi, fate Voi adunque liberamente di me quello che volete. E la Vergine benignissima si compiacque di consolare in sull'istante l'afflitto suo servo, rispondendogli da quella sacra immagine con queste parole: Non prenderti affanno, o mio figlio, poiché mia sarà la cura di renderti consolato. Iddio a maggior glorificazione del suo servo aveva disposto che tutto questo fosse stato inteso dal P. Guardiano il quale stava in coro pregando. Intanto Frat'Umile la mattina appresso, pieno di confidenza in Maria, si presentò all'esame, e con grande stupore di tutti seppe rispondere ad ogni interrogazione con tanta precisione e prontezza, con quanta appena se ne sarebbe potuto ripromettere dal più istruito chierico. Il P. Guardiano allora narrò ai religiosi ciò, che era passato quella notte tra la B. Vergine e Frat' Umile, e conchiuse che, essendosi la stessa Regina del cielo impegnata con lui di farlo ammettere alla professione, altro ad essi non rimaneva che favorirlo coi loro suffragi. E cosi essendosi fatto, con universale soddisfazione due mesi appresso, compiuto l'anno del tirocinio, nel giorno quattro di settembre del 1610 Frat' Umile si consacrò solennemente a Dio coi santi voti, i quali emise nelle mani del nuovo Guardiano, P. Benedetto da Gutro, avendogli tenuto sermone il Vescovo di Beleastro.


Capo IV
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Del dono straordinario dell'estasi, di cui Frat' umile fu dotato.

Il beato Frat'Umile fin da giovinetto rimase una volta alienato dai sensi alla presenza dei confratelli dell' Oratorio, a cui si era ascritto. Dopo quel tempo principiò andare talmente astratto, che sembrava al vederlo piuttosto una statua che non una persona vivente: e di qui pare che Iddio abbia cominciato a favorirlo col dono dell'estasi, le quali fin da quei principii si protraevano fino a ventiquattro ore non interrotte. Questo dono però rimaneva ancora occulto, e pochi, oltre il suo direttore spirituale, ne erano a cognizione, allorché l'anno 1613 essendo il beato uomo di famiglia nel convento di sua patria, piacque a Dio di farlo palese a tutti, servendosi a ciò di alcuni innocenti fanciulli. Il giorno di S. Giovanni Battista nel tempo dell' orazione in comune dopo l'ora di nona, come allora si costumava, il Servo di Dio rimase assorto in un'estasi dolcissima davanti ad una immagine della B. Vergine. Stavano in chiesa ad aspettare che terminasse l'ora della meditazione alcuni suoi nepotini venuti per non so qual loro a fTaruccio a parlargli, i quali come videro gli altri religiosi uscire dal coro, e lui immobile rimanersi al suo posto, gli si accostarono scuotendolo per l'abito e toccandogli le mani per avvisarlo che era tempo di uscire. Ma non si scuotendo punto l'estatico religioso, quei fanciulli lo crederono morto senz' altro, e usciti di chiesa, piangendo si fecero a divulgare per la città che Frat'Umile era rimasto morto appiè di un altare. A questa notizia i suoi parenti con molta altra gente accorsero in gran fretta alla chiesa, e dopo averlo inutilmente scosso e chiamato, cominciavano a piangerlo per morto essi pure, quando sopraggiunse in buon punto il P. Guardiano con altri Religiosi, il quale, immaginandosi ciò che veramente era, intimò a Frat' Umile in virtù di santa ubbidienza che cessasse da quell'estasi. E in effetto il Servo di Dio nel medesimo istante ritornò ai sensi; ma egli ebbe a rimanere estremamente confuso come si accorse che tanta gente era stata spettatrice di quel suo rapimento.
Da questo tempo sino alla gloriosa sua morte si può affermare che la vita del nostro Frat' Umile sia stata un'estasi continua. Imperocché, come ne fanno fede i Processi Apostolici, in questo dono egli fu singolarissimo, sia per la frequenza con cui veniva alienato dai sensi, sia per la durata dell' estasi stesse, le quali giunsero talvolta fino a trentadue ore non interrotte. In chiesa, in refettorio, in cucina, nelle pubbliche vie era rapito in ispirito; anzi nei viaggi quasi sempre camminava estatico, e spesso sollevato anche col corpo a vista di tutti. Zappando la terra in orto sovente all' udire i tocchi della campana al momento dell'elevazione della sacrosanta ostia, rimaneva estatico colla zappa tra le mani, e immobile per più ore, colla faccia rivolta al sole, anche nei più cocenti calori di estate. Stando in estasi non solo non vedeva cosa alcuna, nè udiva qualunque rumore intorno a lui si facesse, ma neppure sentiva l'ardore del fuoco, come si conobbe in varie occasioni, e specialmente una volta nel palazzo del Principe di Tarsia, nella terra di Cirò, dove nel sollevarsi in estasi andò a fermarsi, sospeso in aria, sopra un gran fuoco che vi stava acceso, il quale gli abbrustolì i piedi in modo che, ritornato ai sensi, non potendosi sostenere, cadde stramazzone in mezzo a dolori acerbissimi. In estasi ragionava alle volte intorno a cose altissime ed inveiva contro le offese, che si fanno a Dio; e più di una volta predisse anco gli eventi futuri, specialmente intorno alla santa Chiesa, all'Italia, al regno di Napoli ed alla sua patria. In tali rapimenti si vedeva talora tutto ridente nel volto, tal'altra all'opposto si mostrava in sembiante assai mesto: molte volte anche, specialmente in alcune delle principali solennità, pel gran giubilo che inondava l'avventurata sua anima , prorompeva in soavissimi canti; delle quali diverse trasformazioni essendogli stata richiesta un giorno la cagione, rispose che il Signore alcune volte si degnava di fargli gustare un saggio della beata vita dei celesti comprensori col ricreargli l'anima con quelle angeliche melodie, mentre invece altre volte gli rappresentava al vivo le pene dei dannati, oppure qualche tratto della sua dolorosa passione. Vario poi era il suo atteggiamento esterno quando era rapito in estasi; posciachè fu veduto levarsi in estasi e in ginocchio e ritto sulla persona; e appoggiato al suolo e sollevato più o meno in alto; col capo ora al cielo rivolto, ora chino alla terra ; cogli occhi quando aperti, quando chiusi; colle braccia od allargate, ovvero cosi ristrette al petto da formare colle mani una croce, o insieme congiunte in atto di preghiera. Spessissimo poi si sollevava dalla terra con quegli oggetti, che gli accadeva di avere in quel momento tra le mani; e cosi fu veduto sospeso in aria colla zappa, col bastone, colla bisaccia, col messale, col campanello.
Questo dono però diede in sui principi occasione al Servo di Dio di soffrire molte molestie, specialmente da parte dei suoi confratelli. Infatti cose al tutto straordinarie si vedevano in lui allorché era alienato dai sensi, perchè egli distingueva la voce del Superiore o di altri, che a nome di lui gli comandassero, senza però intendere le parole di nessun altro: camminava speditamente senza mai dare il piede in fallo, mentre pure non vedeva ove il piede posasse: rapito in estasi, sapeva trovare le strade non conoscendole, ed andava a scoprire vene di acqua in luoghi da lui non mai visitati. Oltre a ciò, parimenti estatico, passava i fiumi o sopra le acque o sopra pericolosi travicelli, su cui i suoi compagni non si fidavano di passare; oppure estatico camminava sulla sponda del fiume, finché, pur in estasi e senza veder nulla, trovava il ponte per passare all'opposta riva. Ora i suoi confratelli, benché persuasi della santa vita di lui, nulladimeno dalla grandezza stessa dei prodigii rari a leggersi di altri santi e in lui si frequenti, erano venuti in qualche timore non potesse per avventura avervi parte il padre della menzogna; e volendosene prudentemente accertare, lo sottoposero a varie prove , penose talora ed indiscrete, le quali però come tolsero ogni dubbio dalle menti eziandio dei più ritrosi a prestar fede a simili cose; cosi porsero in pari tempo occasione a mettere in più bella luce le sue singolari virtù.


Capo V
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È riconosciuta la santità di Frat'Umile: suo maraviglioso modo di viaggiare: dal P. Ministro Generale è preso a compagno per la visita della Provincia della Calabria Ulteriore, e quindi per quella della Sicilia, dove viene trattenuto.

Le molte e prolungate prove, tra le quali non è da tacersi la rigorosa custodia del sant'uomo per ben due anni nel convento di Mesoraca con proibizione di trattare con persona al mondo, come a Dio piacque, dissiparono finalmente ogni ombra di sospetto dall'animo dei Superiori, i quali anzi, quanto si mostrarono prima dubbiosi dello spirito di Frat' Umile, altrettante se ne fecero poi essi medesimi i panegiristi. Il primo a render pubblica testimonianza della santità del Servo di Dio fu il P. Pietro dei Martiri, il quale essendo andato circa l'anno 1614 in qualità di Visitatore al convento di S. Lorenzo presso Bisignano dove a quel tempo il Beato trovavasi di famiglia, dopo averne a tutto suo agio esaminato lo spirito, gli rivocò l'accennato divieto di conversare con altri.
Simile concetto della santità di Frate Umile si formò il P.Dionisio da Canosa, quel desso che poscia scrisse alcuni cenni della vita di lui. Questo Padre, essendo stato tre anni appresso, cioè circa il 1617, mandato a visitare la Provincia della Calabria Citeriore, con varie mortificazioni mise alla prova la virtù del Servo di Dio, come fu quella, da lui stesso poi registrata, di fargli mangiare in ginocchio nel mezzo del refettorio di Cosenza il giorno del SS. Natale, col precetto agli altri religiosi di porgli, nel passare a lui vicino, il piede sopra la bocca e di dirgli: Peccatore, emenda la tua vita. Nè fu meno ardua della narrata l'altra prova fattagli nel convento di San Fili, dove il Beato comparve alla pubblica mensa colle spalle ignude, battendosi senza pietà con una pesante disciplina di ferro. Le quali mortificazioni accettate dal sant'uomo con piena docilità di animo, e con somma prontezza e allegrezza di spirito eseguite, fecero concepire nel P. Visitatore così grande venerazione verso di lui, che, per sua stessa confessione, gli portò poi sempre una divozione speciale, e sei prese a compagno in quella visita stessa.
Ma era nei disegni di Dio che la santità di Frat' Umile non rimanesse nascosta entro i ristretti confini della sua Provincia. Correva l'anno 1620, allorché vi arrivò il P. Benigno da Genova, Ministro Generale dell'Ordine, il quale, conoscendo già per fama il Servo di Dio, lo fece venire al convento di S. Marco, dove era stato intimato il capitolo, ed ebbe la consolazione di vederselo dinanzi a se rapito in estasi per più di un'ora in ginocchio. Nel tempo medesimo lo interrogò intorno a varii punti della vita spirituale, facendogli anche delle obbiezioni molto sottili; ma le risposte che Frat'Umile gli diede, furono talmente conformi ai principii della sana teologia, che quel grande uomo stupefatto conchiuse col dire che quantunque fossero già dodici anni da che era al governo dell'Ordine, non gli era però mai stato fatto di trovare un religioso, il quale potesse paragonarsi con esso, e lo condusse poi seco nella visita della Calabria Ulteriore e della Sicilia.
Meraviglioso oltre ogni dire era il modo di viaggiare dell' uomo di Dio. Rapito continuamente in estasi, e il più delle volte colle braccia sollevate e cogli occhi fissi al cielo, egli per via nulla vedeva ed udiva; ciò nondimeno la voce dell' ubbidienza, anche interiormente proferita, bastava a richiamarlo ai sensi; e seguiva cosi fedelmente le traccie del compagno, che più volte fu osservato che egli posava il piede sulle orme stesse impresse da quello. Dovendo, specialmente d'inverno, camminare per sentieri fangosi, mai non fu che s'imbrattasse l'abito o i piedi di fango; come mai pur non avvenne che questi rimanessero feriti occorrendogli di passare per entro a folte boscaglie ed a spineti, quantunque non vi avesse alcun riparo, essendo egli solito di camminare a piedi affatto ignudi, o tutto il più cogli zoccoli. Ma ciò che è più mirabile ancora, le acque lo rispettavano per modo ch'egli viaggiò parecchie volte sotto piogge dirottissime senza punto restar bagnato; e le correnti stesse dei fiumi all'appressarsi di lui si arrestavano e dividevansi per mezzo, lasciandogli libero il varco per passare all'opposta sponda. Ora essendosi tutti codesti prodigii rinnovati nei quattro mesi che fu insieme col P. Ministro Generale nella Calabria Ulteriore e nella Sicilia, egli è ben facile ad immaginarsi quanto gran fama abbia levato della sua santità in quelle provincie, e quanto fruttuosa sia riuscita quella visita confermata dagli esempii di sì santo religioso. Il che si può con sicurezza argomentare da ciò, che i suoi confratelli della Sicilia stimandosi avventurati di avere in mezzo a loro un uomo tanto caro a Dio, con premurose istanze chiesero al P. Generale che loro lo lasciasse, ed essendone stati esauditi lo collocarono di famiglia nel convento di S. Maria di Portosalvo in Messina. E poiché qualche mese appresso, per un motivo che troppo in lungo porterebbe se si volesse riferire, il Servo di Dio era stato richiamato alle Calabrie, la città stessa di Messina con una lettera molto onorifica per lui, supplicò il P. Vicario Generale dell' Ordine in Roma (perocché il P. Ministro Generale era a quei di passato nelle Spagne), affinchè glie lo rimandasse, come in effetto l'ottenne, benché non abbia poi potuto godere a lungo della santa conversazione di lui, essendo stato poco dopo chiamato a Roma.


Capo VI
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Frat'Umile è chiamato a Roma da Gregorio XV, e quindi da Urbano VIII, i quali lo hanno in grande venerazione.

Le portentose azioni che di Frat'Umile si narravano, non tardarono a giungere all'orecchio del Sommo Pontefice Gregorio XV, il quale, fosse divoto desiderio di conoscere di persona un uomo illustrato da Dio di doni cotanto singolari, o fosse puranco prudente consiglio di assoggettare al giudizio autorevole di gravi ed esperte persone lo spirito del medesimo, per mezzo del suo Nunzio di Napoli lo chiamò a Roma. I religiosi e la città tutta di Messina furono dolentissimi al dover perdere, forse per sempre, l'uomo di Dio, che tanto veneravano e pel cui ritorno eransi con tanto impegno adoperati. Anche i suoi confratelli della nativa Provincia della Calabria Citeriore, i quali nutrivano ancora la speranza di riaverlo tra loro, se ne rammaricarono non poco, e solo potè mitigarne il dolore la promessa del Servo di Dio che da Roma avrebbe fatto ritorno e che avrebbe finito di vivere nel convento di sua patria. Quegli però a cui un tale comando riusci più sensibile, fu senza dubbio Frat'Umile, al quale, pel bassissimo concetto che aveva di se stesso, la deliberazione del Vicario di Cristo tornò inaspettatissima e di somma sua confusione. Senonchè, avvezzo egli sempre a venerare nella voce dei Superiori la voce stessa di Dio, piegò umilmente il capo alla santa ubbidienza, e abbracciati per l'ultima volta i suoi benevoli confratelli di Messina, si dispose a partire verso la metropoli del cattolico mondo. Dove come arrivò, primo suo pensiero si fu di recarsi a baciare il piede al Successore di S. Pietro, il quale lo accolse con tanta affabilità, e al solo vederlo provò tanta consolazione di spirito che, com'ebbe poi a manifestare ad alcuni suoi famigliari, non ne aveva mai in tutta la sua vita provata di simile. Frate Umile, non appena fu alla presenza del Pontefice, secondo il suo solito, fu rapito dallo spirito del Signore e rimase assorto in estasi , dalla quale non si riscose finché dal Papa non ne ebbe il comando. E poiché Gregorio aveva conosciuto ch'egli era un uomo di Dio, spesso lo faceva chiamare al suo palazzo, né disdegnava di conferire a solo a solo con questo povero fraticello intorno a negozii di somma importanza; ed essendo una volta caduto infermo di tal malattia che ai medici faceva temere della sua vita, Frat'Umile lo assicurò che sarebbe guarito, come fu veramente; per la quale predizione il Servo di Dio si acquistò presso i famigliari del Papa il titolo di frate santo. Ben diverso però fu il pronostico che fece l'anno seguente intorno alla salute del medesimo Gregorio, perocché quantunque, a giudizio dei medici, l'infermità sembrasse leggerissima, egli dichiarò apertamente che il Papa di quella sarebbe morto, e l'evento non tardò a confermare la sua asserzione.
Il Sommo Pontefice aveva comandato ai Superiori del convento di S. Francesco a Ripa, dove ordinariamente il Servo di Dio abitò tutto il tempo che si trattenne in Roma, che tenessero l'occhio sopra ogni sua azione, e quindi gliene dessero esatte informazioni. Perlocchè in parecchie occasioni ed in varie guise fu messa alla prova la virtù di Frat'Umile, il quale però tanto fu lungi che ne scapitasse per questo da quel buon concetto in che era appresso tutti, che anzi da ciò stesso si venne a conoscere con maggiore evidenza a quale alto grado di perfezione egli fosse salito. E veramente vi fu tra quei padri chi attestò che, incontrandosi nel Servo di Dio, con quel suo contegno si modesto e divoto, colla faccia smunta per le eccessive austerità, e spirante insieme un'aria di paradiso per la sua intima comunicazione con Dio, a tutti i religiosi pareva di vedere in lui una viva immagine del P. S. Francesco, ed era per loro un oggetto di meraviglia e di divozione continua. I giorni e le settimane intiere egli passava sempre dentro del chiostro, non uscendone mai se non che o per recarsi dal Sommo Pontefice quando vi era chiamato, o per fare la visita delle sette Chiese per l'acquisto delle Sante Indulgenze. Ma questa, perocché anche in Roma la gente, attiratavi dalle sue estasi, aveva incominciato tenergli dietro per le contrade in tanta folla, che una volta, tra le altre, corse pericolo di rimanervi soffocato, per comando espresso dei Superiori la faceva in tempo di notte, accompagnato da un altro fratel laico di molto spirito. Il quale esercizio quanto a Dio tornasse accetto, lo si può dedurre dai prodigii, con cui a lui piacque di glorificare i due ferventi religiosi. Imperocché si legge che facendo questo pio esercizio sotto piogge dirottissime, e dovendo per visitare le chiese poste fuori le mura della città spesso attraversare strade fangose e quasi impraticabili, nè l'uno nè l'altro erano mai tocchi dalla pioggia ed imbrattati comecchesia l'abito o i piedi di fango, senza poi dire che Frat'Umile spesso si vedeva mandare dalla persona raggi luminosi, e più di frequente ancora camminava tutto assorto in Dio e cosi sospeso in aria che quasi pareva non toccasse coi piedi il terreno. Del resto, il vivere suo era sempre dentro il convento, dove occupavasi colla massima fedeltà nei varii uffizii, che gli venivano assegnati; ma le estasi non gli erano perciò meno frequenti che altrove, anzi giunsero a tal segno che i Superiori furono costretti a proibirgli di assistere in chiesa alle pubbliche funzioni per evitare i tumulti, che succedevano nel popolo trovandosi spettatore di quei rapimenti. Eragli però libero di dare sfogo al suo spirito nel santuario del P. S. Francesco, dove si trovava sempre estatico e spesso ancora elevato da terra.
Tale adunque era il tenore di vita, che il Servo di Dio menava da circa due anni in Roma, allorché Papa Gregorio morì. Parve allora a Frat'Umile di poter liberamente far ritorno alla sua Provincia, e malgrado gli amorevoli suggerimenti dei suoi confratelli, che lo avrebbero voluto trattenere, si mise in viaggio e dopo alcuni giorni arrivò a Napoli, dove ebbe ordine di fermarsi alquanto di tempo per soddisfare alle molte istanze, che la nobiltà napolitana fatte ne aveva ai Superiori dell'Ordine. Intanto era stato eletto il nuovo Pontefice Urbano VIII, il quale avendo inteso che il Servo di Dio era passato a Napoli, fece tosto scrivere a quel suo Nunzio, perchè lo facesse ripartire per Roma. Frat'Umile adunque non potendosi sottrarre ai voleri del Papa, ritornò a Roma, dove fu accolto da Urbano con molta amorevolezza. Egli pure, come fatto aveva Gregorio, spesso lo chiamava al suo palazzo, e godeva di trattenersi con lui in ragionamenti di spirito, e raccomandava se stesso e la Chiesa alle sue orazioni. Le quali quanto fossero efficaci può renderne ampia testimonianza la principesca famiglia dei Barberini, a cui quel gran Papa apparteneva. Imperocché essendo essa molto afflitta per non esservi discendenza mascolina dal Principe D. Taddeo nipote di Urbano, si raccomandò alle preghiere del Servo di Dio, il quale non solo le impetrò dal Signore la desiderata prole, ma inoltre la consolò col predire che Donna Anna Colonna, moglie del nominato Principe, avrebbe dato alla luce tre figli maschi; il che si vide poi pienamente avverato.
Sette anni o in quel torno, cioè dal 1623 al 1630, Frat'Umile si fermò questa seconda volta in Roma, meno alcuni intervalli di tempo che soggiornò in Napoli a motivo delle gravi malattie, da cui negli ultimi anni venne assalito, le quali aggravandosi sempre più, dopo essere stato per due anni nella nostra infermeria di S. Croce in Napoli senza ritrarne da quel clima alcun giovamento, finalmente indussero i Superiori a rimandarlo alla sua Provincia nativa.


Capo VII
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Frat'Umile ritorna alla sua Provincia della Calabria Citeriore: solenni accoglienze avute nel viaggio ed in patria.

Una lenta malattia di visceri, cagionatagli principalmente dalle grandi astinenze e da quell'eccessivo ardore di carità, che in lui era abituale, veniva da molto tempo logorando la preziosa vita di Frat'Umile. Perlocchè, dopo essersi sperimentato inefficace ogni altro rimedio, i Superiori vennero finalmente in deliberazione di rimandarlo alla sua Provincia nella speranza che l'aria nativa gli potesse recare qualche miglioramento. Ma questa speranza il santo uomo punto non aveva, il quale anzi nel congedarsi da' suoi confratelli di Roma diede loro chiaramente a vedere che quel morbo lo avrebbe tratto al sepolcro. Dopo di avere pertanto soddisfatto per l'ultima volta alla sua divozione colla visita di tutti i Santuarii di detta città, prese commiato dai suoi correligiosi di S. Francesco a Ripa chiedendo pubblicamente perdono degli scandali, ch'egli nella sua profonda umiltà credeva di aver loro dati col suo vivere scorretto. Il quale atto di umiliazione in un religioso di sì eminente virtù trasse le lagrime a quanti vi erano presenti, e rese più sensibile il dolore, che provavano nel doverlo tra breve perdere per sempre.
Questo viaggio non solo fu, come tutti gli altri, un intreccio meraviglioso di prodigii, ma può dirsi che sia stato pel Servo di Dio un non interrotto trionfo, imperocché ovunque egli passava, vedevansi corrergli incontro le moltitudini a baciargli l'abito ed anche a tagliarglielo in pezzetti, il quale però, con un miracolo continuo, come si recideva, cosi veniva tosto crescendo alla sua prima misura.
Imbarcatosi in non so qual porto del Napoletano, per togliersi agli altrui sguardi andò a rannicchiarsi in un angusto ripostiglio della barca, ma alcuni raggi di luce, che prodigiosamente si videro partire dal suo volto, lo tradirono, facendolo suo malgrado rispettare per uomo di Dio da tutta la comitiva. La quale tuttavia guari non andò che a sua gran mercè ebbe a convincersi ancora più della santità di lui. Imperocché essendosi nell' attraversare il golfo di Policastro levata una furiosa tempesta, che faceva temere imminente il naufragio, non appena Frat'Umile invocò il soccorso della Regina del Cielo, cessò il vento e le onde con evidente prodigio si ricomposero; per la qual cosa riconoscendosi tutti debitori della propria gita al Servo di Dio, lo proclamarono per santo e gliene resero vivissime grazie con sua grande confusione.
Ma molto maggiore sacrifizio dovette costare all'umiltà del santo religioso l'accoglienza veramente solenne, onde fu ricevuto al porto della Scalèa. Egli che in ispirito l'aveva preveduta, volendola evitare, aveva pregato il piloto a dar fondo a qualche altro porto, ma non fu esaudito. Il principe adunque della Scalèa com'ebbe sentore che l'uomo di Dio doveva approdare al suo porto, gli mandò incontro a titolo di onore la sua stessa feluca, ed egli medesimo discese alla spiaggia ad aspettarlo colla sua corte, col clero del luogo e con una gran moltitudine di gente. Quando poi il Servo di Dio tra gli evviva e gli applausi del popolo pose piede in terra, fu tosto salutato colle salve dei mortaretti, mentre il suono a festa delle cam- pane ed il concerto dei musicali strumenti faceva eco alla comune esultanza. Quei divoti signori, genuflessi dinanzi al figlio di S. Francesco, vollero baciargli le mani, il quale esempio fu quindi seguito dalla moltitudine, cosicché per la gran pressa, che intorno a lui si faceva, poco mancò che non vi rimanesse soffocato.
Altri intanto per soddisfare alla loro divozione furtivamente si facevano a tagliargli l'abito ed il mantello, e se una mano di soldati non fosse venuta in buon punto a toglierlo da quella gente indiscreta, sarebbe rimasto quasi ignudo. Coll'abito adunque che gli cadeva a brandelli, in mezzo alle più splendide ovazioni, egli venne condotto a modo di trionfo fino al palazzo del principe, dove appena giunto, eccoti l'abito ed il mantello, già laceri e ritagliati, a vista di tutti mirabilmente crescergli in un momento alla conveniente misura. La commozione prodotta nel popolo spettatore di si raro prodigio è più facile a concepirsi che non a narrarsi: V attonita moltitudine proruppe ad una voce: miracolo, miracolo; ma nel momento medesimo lo spirito del Signore aveva rapito a sè il suo Servo, il quale rimase alienato dai sensi in un'estasi profondissima ed elevato da terra quasi due palmi alla presenza di tutta la gente.
Due giorni egli si trattenne alla Scalèa con indicibile consolazione di quel buon principe e con molta edificazione e giovamento delle anime. Di là essendo poi passato alla città di Paola, quivi pure fu accolto assai onorevolmente dal clero e dal popolo, che era uscito ad incontrarlo. Da Paola si diresse quindi verso Bisignano, la quale città si era messa in gran festa pel suo arrivo. Qui pure, non essendo possibile porre freno al fervore del popolo, gli furono tagliati e l'abito e il mantello; anzi l'abito gli fu tagliato fino al ginocchio, della qual cosa accortosi il P. Guardiano, come fu entrato in convento, rivoltosi in atto di ammirazione al Servo di Dio, Frat' Umile , gli disse, che abito è egli codesto? Voi non avete indosso che un mezzo abito. Alla quale interrogazione pel gran rossore il sant'uomo altro non seppe rispondere che questo: Per carità Padre...; quand'ecco nel medesimo istante si vide che l'abito gli era ritornato alla sua giusta lunghezza.
Giunto al convento, il primo suo pensiero si fu di recarsi all'altare della Santissima Vergine per ringraziarla dell'avere esaudita la sua preghiera che le sue ceneri fossero deposte appiedi di quella sua sacra immagine, e nell'entrare poi nei dormitorii ripetè più volte con gran giubilo: Haec requies mea, le quali parole chiaramente dimostravano essergli stato rivelato che in quel convento avrebbe compiuta la sua mortale carriera.


Capo VIII
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Fedeltà di Frat'Umile nell'osservanza dei santi voti; e prima della sua perfetta ubbidienza.

Quantunque quel poco che si è narrato fin qui possa essere sufficiente a far rilevare l'esimia santità del nostro Frat'Umile, parmi tuttavia non inutile venir discorrendo brevemente della fedeltà di lui nell' osservanza dei santi voti professati. Esattissimo adunque il Servo di Dio nel disimpegno di qualunque uffizio, che l'ubbienza gl'imponesse, umile e rispettoso coi prelati, affabile e caritatevole cogli eguali e cogli inferiori, tenacissimo dell'osservanza della santa Regola e delle Costituzioni, geloso custode del silenzio, e sempre col sorriso in sul labbro, che rivelava l'intima unione della sua benedetta anima col celeste suo Sposo, egli formava la delizia delle comunità in cui viveva, le quali meritamente recavansi a gloria di avere in lui un perfetto modello del vero religioso. Fuori poi del convento , al vederlo cosi modesto nel conversare, cogli occhi sempre fissi in terra, e tanto macilente nella faccia per le eccessive penitenze che, siccome dicono i processi, pareva appena uscito dal sepolcro, egli si conciliava presso ogni classe di persone tanta riverenza che correva per le bocche di tutti come un gran santo, e non pochi, anche da lontani paesi, traevano a lui per avere consigli ed essere diretti nello spirito. Egli però in mezzo a tante dimostrazioni di stima non fu mai che si dipartisse da quello spirito di umiltà profondissima, che era uno dei suoi principali caratteri; e reputandosi il più gran peccatore, che vivesse sopra la terra, ogni onore riferiva a Dio solo, e si maravigliava che gli uomini potessero andare dietro a lui rozzo e meschin fraticello. E intanto, pauroso d' ogni alito di vanagloria, dall'applauso degli uomini traeva argomento a vieppiù confondersi, e per trovarsi preparato ad ogni tentazione, che lo potesse assalire, si umiliava continuamente davanti a Dio nella preghiera, nella quale spendeva tutto il tempo, che gli rimaneva libero dalle occupazioni del suo uffizio, e quasi tutta la notte, essendo solito di dormire non più di due ore, e queste pure o genuflesso, o rannicchiato in un angolo della cella, o sul nudo terreno. Questo si può dire sia stato il metodo costantemente tenuto da Frat' Umile in tutti i ventotto anni, che visse nella santa religione.
Ma per discendere un poco più al particolare, il Servo di Dio si mostrò mai sempre così perfetto nelP ubbidienza, che con tutta verità gli si sarebbe po- tuto appropriare l'elogio, che del perfetto obbediente lasciò scritto il dottor S. Bernardo: fidelis obediens nescit moras, fugit crastinum, ignorai tarditatem, praeripit praecipientem, parai oculos visui, aures auditui, linguam voci, manus operi itineri pedes: totum se colligit, ut tmperanlis colligat volunlaiem (1). Sul qual proposito scrisse un suo biografo che al veder Frat'Umile tanto sereno e giulivo in qualunque più penoso incontro si sarebbe detto che la voce della santa ubbidienza gli alleggerisse ogni più grande travaglio; e di ciò ne reca a conferma quello, che gli successe in un viaggio che fece da Policastro a Cosenza, nel quale come arrivò ai piedi di quella catena di montagne quasi inaccessibili, che si chiama la Sila di Cosenza, avendo trovato che la neve vi fioccava assai bene e in sempre maggior copia quanto più s'inoltrava nella strada, egli non ebbe riguardo di camminare per entro a quella neve a piedi ignudi pèl lungo tratto di sedici miglia ; e pervenuto a due ore di notte al nostro convento di Figline, benché digiuno e dopo ventotto miglia di viaggio, quasi si fosse a tutto suo bell'agio rinfrancato dai disagi del giorno innanzi, alla mezza notte si levò pel mattutino come tutti gli altri, ed essendo andato in estasi, vi predicò, ritto in sui piedi, perdio spazio di circa quattro ore.
Né questo fu il solo fatto in cui si diede a conoscere la perfetta ubbidienza del Servo di Dio, il quale tenendo sempre i cenni dei Superiori in conto di oracoli, continuamente aveva occasione di esercitarsi in questa virtù. Non potendo qui far parola dei singoli fatti occorsigli, mi limiterò a quell'atto di ubbidienza veramente, se altro mai, perfetto ed eroico, da lui esercitato allorché fu trasferito al convento di S. Lorenzo presso Bisignano. Il P. Custode, cedendo alle molte istanze del Vescovo e della città di Bisignano, aveva dato licenza a Frat'Umile di recarsi in patria; ma prevedendo le onorevoli accoglienze, con cui sarebbe stato ricevuto, avevagli insieme fatto un precetto di girare per le principali contrade della città ignudo dalla cintura in su, colla corda al collo, gridando ch'egli era un cattivo cristiano. Vero è però che non intendendo egli ad altro se non che di fare esperimento della virtù di lui, ne aveva già avvertito il P. Guardiano del luogo, affinchè appena lo avesse trovato disposto ad ubbidire, gli avesse rivocato il precetto. Ma Iddio ad edificazione di quei cittadini e a maggior gloria del suo Servo permise che quell'atto di ubbidienza si compiesse. Imperocché Frat'Umile, essendo giunto una sera ad ora tarda al convento, la seguente mattina, senza far parola con chicchessia, lasciato in convento l'abito, colla fune al collo e il crocifisso in mano, se ne usci, percuotendosi il petto con un sasso e gridando a piena gola ch'egli era un gran peccatore, e dopo avere in quell'arnese percorso quasi tutta la città, se ne tornò in convento, godendo nel suo cuore di essersi fatto stolto davanti agli uomini per amore di Gesù Cristo.
Più volte pure Iddio si è degnato di glorificare con singolari prodigii la perfetta obbedienza del suo Servo. Basti a conferma di ciò il fatto seguente avvenuto anch'esso in Bisignano. Il sant'uomo soggiornava a quel tempo nell'accennato convento di sua patria, ed aveva la cura dell' orto. Or accadde un bel dì che quel P. Guardiano, di nome P. Ignazio da Laurignano, fosse per ischerzo, o fosse pur anco per mettere alla prova la virtù di Frat' Umile, avendo veduto che questi stava piantando i cavoli, gli disse che non sapeva fare quella piantagione come conveniva, e che egli stesso gliene avrebbe insegnato il modo. Ciò detto, prese una di quelle pianticelle, la ficcò in terra capovolta, rimanendone scoperte le radici e sepolte le foglie, e comandò quindi a Frat'Umile che in simil guisa seguitasse a piantare le altre. Il buon religioso non proferì verbo a quel comando, che pur poteva sembrare una stranezza, e in sull'istante cominciò a piantare i cavoli a quel nuovo modo. A taluno non troppo conoscitore di quello spirito, onde i santi sanno nobilitare le azioni stesse più comuni e in apparenza di nessun conto, potrà per avventura parere più presto effetto di natural dabbenaggine, anziché di soda e maschia virtù, quel pronto ubbidire di Frat'Umile. Ma ben altrimenti Iddio valutò quell'atto, e a far conoscere a tutti quanto gli fosse stato accetto, si degnò di operare in questa occasione un miracolo veramente straordinario. Imperocché quei cavoli, i quali, fitti in terra a quel modo, ogni ragion voleva che appassissero e si diseccassero, non solo attecchirono, come si legge avvenuto anche al ven. Carlo da Sezze, laico pur esso della nostra Serafica Riforma; ma ciò che è ancora più mirabile, nel corso di poche ore e fiorirono e maturarono a perfezione, cotalchè l'indomani furono apprestati per cibo ai religiosi.

(l) Serm. de virtut. obedient.


Capo IX
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Della sua illibata castità, e della sua povertà.

Il Servo di Dio Frat'Umile fin dall'età più verde si diede a conoscere amantissimo della santa purità, cosicché stà registrato nei processi che fino da fanciullo e quindi negli anni stessi più pericolosi della gioventù ei si serbò colla grazia del Signore immacolato e puro per modo da essere considerato fin d'allora come un esemplare della più illibata purezza. Ad insinuazione di chi dirigeva la sua bell'anima al ricorrere le feste della Vergine santissima egli prese il costume di consacrare alla Regina degli Angeli, della quale fu sempre devotissimo, con voto temporaneo il suo giglio verginale, il cui candore gelosissimo che non avesse comecchessia a rimanerne appannat , difendeva colla più severa custodia dei suoi sentimenti. Dedicatosi poi al Signore coi santi voti, oh! quanto bene ei seppe guardare sì prezioso tesoro. Mai non fu udito proferire parole, non dirò poco oneste, ma anche solo che sentissero di oziosità: gli occhi poi tenne tanto a freno che per vederne le pupille bisognava aspettare che fosse assorto in estasi. Ma più rigida violenza egli usava allorché, o per appagare l'altrui divozione o per ubbidire ai suoi Superiori, gli era d'uopo conversare con donne, come fu quando in Roma per comandamento del Papa dovette recarsi a varii monasterii di monache e visitare parecchie principesse della romana nobiltà. Simile riservatezza teneva nel viaggiare; e benché gran moltitudine di persone in varie occasioni gli si stringesse intorno, non fu mai ch' egli alzasse da terra lo sguardo.
Ma perocché egli ben sapeva che il giglio della purità a serbarsi incontaminato convien che dalle spine di una continua mortificazione sia difeso, alla modestia vi aggiunse le più severe penitenze. Il proposito fatto fin da secolare di non gustare mai carne ei mantenne saldissimo anche nel chiostro, e allora soltanto ne rigustò quando i superiori, per ragione delle sue gravi infermità, gliene fecero un precetto; ma allora pure il suo desiderio di mortificarsi seppe trovare modo di affliggere i sensi coll'aspergere quella carne di cenere per levarne ogni sapore. Oltre a ciò sempre si astenne dal vino, se non fosse stato astretto a berne per lo stesso motivo della guasta salute. Anzi la sua astinenza giunse a tal segno, che per ben undici anni non d'altro egli campò che di puro pane ed acqua, e più volte dei giorni intieri ed anche qualche settimana continua durò senza prender cibo o bevanda di sorte alcuna, miracolosamente sostentandosi in vita colle specie eucaristiche. E come se tutto questo fosse poco, meno due ore che concedeva di riposo al suo corpo, spendeva tutta la notte o nella preghiera o nel flagellarsi, e si batteva con tanta forza che spesso ne restava spruzzato del suo sangue il pavimento, e lo strepito delle battiture si udiva anche fuori del chiostro. Portava poi sempre sulle nude carni un aspro cilizio, e d'una grossa catena di ferro stringevasi i lombi, cosicché a lungo andare il suo corpo era divenuto tutto una piaga, e le carni gli si erano infracidate. Nè questi rigori gl'impedivano di eseguire colla più scrupolosa esattezza quanto gli veniva imposto dall'ubbidienza; nè egli li rallentava punto, per quanto gli era possibile, sia per occasione di viaggio, sia per qualunque altra occupazione faticosa. Con tali mezzi pertanto il sant'uomo si studiava di conservare intatto il giglio della purità; ed il Signore in ricambio gli concesse tanta purezza d'anima e di corpo che, per attestazione di chi dirigeva la sua coscienza egli non macchiò mai l'anima di colpa nemmeno veniale, e discese nel sepolcro colla battesimale innocenza.
La santa povertà poi, fu sempre amata da Frat'Umile con ispeciale dilezione. Avvegnaché prima ancora che abbracciasse il Serafico Istituto fosse già col cuore totalmente staccato da ogni affezione terrena, coll'indossare però l'abito di S. Francesco parve che lo spirito del santo Fondatore in lui pienamente si trasfondesse. La sua cella altro non presentava che le nude pareti, un povero pagliericcio ed una croce di legno. In quanto poi al vestito, sempre si tenne pago di una sola tonaca logora e rappezzata appena sufficiente a coprire la nudità delle carni, anziché atta a difenderle dai rigori delle stagioni. Sandali mai non usò, ma se talora l'infermità o l'ubbidienza ve lo astringeva, portava gli zoccoli; da questi casi in fuori sempre a piedi del tutto ignudi, anche nei viaggi.


Capo X
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Carità di Frat'Umile verso il prossimo; Iddio la conferma con singolari prodigi.

Un uomo cosi amante di Dio qual era Frat'Umile, non poteva non amare il suo prossimo, imperocché, come insegna S. Giovanni, sarebbe mendace chi dicesse di amare Iddio e intanto covasse in cuore sentimenti di odio e di avversione verso il proprio fratello. Standogli a cuore principalmente la salute delle anime, il nostro Frat'Umile con gran fervore di spirito pregava il Signore per la conversione dei poveri peccatori, non tralasciando in pari tempo mezzo alcuno, per quanto la sua condizione di fratel laico glielo consentiva, per indurli a convertirsi. Con questo santo intendimento egli soleva mettersi attorno a chi conosceva macchiato di qualche colpa grave, e con dolci e caritatevoli maniere lo veniva esortando a lasciare il peccato: e dai processi si rileva che in tal modo ottenne, tra le altre, la conversione di un gran peccatore, che da parecchi anni non pensava più all'anima sua.
Non è però a credere per questo ch'egli fosse insensibile alle miserie temporali del prossimo, mentre anzi ne era tocco a compassione in guisa che procurava ogni mezzo per alleviarle. Allorché esercitava l'uffizio di cercatore, al vedere tanta povera gente alla porta del convento, che stava aspettando qualche tozzo di pane per disfamarsi, frequentemente, mosso da un particolare impulso di Dio, dispensava a quei poverelli tutto il pane, che aveva trovato in limosina; e se veniva interrogato di che si sarebbero poi sostentati i religiosi, era solito rispondere che la misericordia di Dio non manca mai. Nè male egli si apponeva, essendosi Iddio compiacciuto di confermare più d'una volta coi più stupendi prodigii quegli atti di carità. In effetto, come Frat' Umile entrava in convento, così tosto le bisaccie, già vuotate del pane dispensato ai poveri, di altrettanto miracolosamente si vedevano riempiute. Questo prodigio si rinnovava con frequenza, ma non era il solo. Leggesi nei processi che un giorno il sant'uomo, dopo di avere boccone a terra rese grazie alla divina provvidenza per la moltiplicazione dei pani allora avvenuta, ne distribuì quattro di essi ad altrettante donne sue parenti, le quali a caso erano state spettatrici di quel prodigio; e quei pochi pani, certo non senza evidente miracolo, bastarono per tre giorni alle famiglie di quelle, quantunque ne mangiassero a sazietà e a pranzo e a cena.
Ma non fu meno portentoso dell' accennato quell'altro fatto, che gli occorse poco lungi dalla terra di Tarsia. Passava Frat' Umile per quel luogo insieme con un certo Fr. Vincenzo da Bisignano, il quale depose poi il fatto nei processi, e quei buoni terrazzani, essendosi accorti dell' arrivo tra loro dell' uomo di Dio, uscirono in gran festa dalle loro abitazioni e, presoselo in mezzo, lo accompagnarono per lungo tratto di strada fuori del paese, facendo intanto tutti a gara di appressarglisi per toccargli il lembo dell'abito e baciarlo, e per raccontargli i travagli che soffrivano, nella fiducia che le preghiere di un'anima tanto a Dio cara sarebbero state efficaci ad impetrar loro dal cielo la liberazione da quei malori. Or mentre il sant'uomo in quell'assedio di divozione colla sua solita modestia e dolcezza veniva consolando tutti con qualche buona parola, e si erano già percorse a quel modo da circa quattro miglia , giunse l'ora del mezzogiorno; e poiché quella gente non pensava ancora a ritornarsene, egli disse al compagno che traesse fuori della sportella quel poco di viatico che dentro vi aveva per reficiare con esso quei divoti dell'abito di S. Francesco. Obbedì il compagno, ma meravigliandosi che con sì scarsa provigione intendesse di soddisfare ai bisogni di tutta quella gente, che oltrepassava una settantina di persone, rivoltosi a lui, Frat'Umil mio, gli disse, non vi abbiamo più che tre pani. Ma l'uomo santo pieno di confidenza in Dio, senza darsi per inteso delle parole dell'altro, fece adagiare tutta quella moltitudine nell'aperta campagna, e poscia, benedetti quei tre pani col segno della santa croce, cominciò a distribuirne una buona porzione a ciascuno; e ve n'ebbe per tutti, e tutti ne furono satolli, e poterono anche serbarne una parte da portare alle loro famiglie quale preziosa reliquia del gran miracolo operato sotto i proprii occhi. Nè qui ebbe fine il prodigio, affermando alcuni testimonii che quei frammenti, conservati in alcune case lungo tempo, mai non dettero indizio di corruzione, e parecchi malati, avendone mangiati con fede, ne provarono giovamento.
Checché però ne sia di tali frammenti, egli è certo che una cotal Vittoria Rossano di Bisignano, la quale era cosi attratta nelle membra che da circa sei mesi non poteva muoversi di letto, appena ebbe mangiato un pezzo di pane benedetto da Frat'Umile, senti dentro di sè infondersi tanta vigoria e robustezza da poter d'un tratto sbalzare dal letto e camminare speditamente, come se mai non fosse stata ammalala. Ed un certo Vincenzo Gassano del luogo stesso pur con un poco di pane benedetto dal Servo di Dio guarì d'una mortale malattia, che da un anno intero lo veniva tormentando.
Ma dove in modo speciale la carità di Frat' Umile si esercitava, era verso gl'infermi, i quali spessissimo si faceva a visitare e di giorno e di notte, porgendosi con prontezza ad ogni loro bisogno, e trattandoli con tale amorevolezza ed affabilità da rapire i cuori di tutti. Sul quale proposito non voglio tacere un atto di eroica carità da lui esercitato verso il P. Francesco Mendozza allora novizio, al quale essendosi slogato un piede, Frat'Umile supplicò il Signore per la guarigione di lui, offrendosi a sopportare in sè medesimo quel dolore. La qual domanda Iddio si compiacque di tosto accettare, poiché il novizio guarì, e l'uomo santo d' allora in poi andò sempre zoppicando.
Colle sue orazioni poi impetrò la sanità a molti infermi già sfiduciati dai medici, come si vedrà a suo luogo.


Capo XI
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Frat'Umile è in varie guise maltrattato dal demonio.

Abbiamo altrove accennato come il Servo di Dio fin dall'età più giovanile cominciasse ad essere fatto segno ai maltrattamenti ed alle persecuzioni dello spirito delle tenebre. Or siccome egli da una parte, tutt'altro che venir rimettendo del primo fervore, andava in quella vece a gran passi avanzando in perfezione; cosi dall'altra il suo implacabile nemico raddoppiava contro di lui le sue arti, movendogli guerra accanita e molestandolo in ogni maniera. Parecchie di tali lotte sostenute da Frat'Umile furono dai suoi biografi registrate; ed io mi avviso non essere senza qualche utilità il qui riferirne alcune.
Un giorno adunque che il Servo di Dio giaceva a letto per non so quale infermità, il demonio sotto le apparenze di medico entrò nella sua cella. Frat'Umile, non avendolo in sulle prime riconosciuto per quello ch'egli era, lo accolse cortesemente, rivolgendogli il consueto saluto dei religiosi: Sia lodato Gesù e Maria, e poi colla solita sua semplicità gli soggiunse: Chi ti ha fatto venire qui in sì buon punto? perocché sto molto stanco ed affannato. Ed il finto medico a lui: Se vogliamo essere amici, non mi proferire questi Nomi. Si accorse Frat'Umile ad una tale risposta che colui sotto quelle mentite forme doveva essere un demonio, ed invocati i potentissimi Nomi di Gesù e di Maria, sbalzò improvviso dal suo letticciuolo, e con gran forza afferrando allo stomaco quel finto medico, che gli si era seduto a lato, gl'intimò: In virtù di questi Nomi santissimi di Gesù e di Maria dimmi che cosa eri venuto a fare qui. E poi continuò: Poiché già ci sei venuto, io ti comando da parte di Gesù Nazareno e di Maria Vergine sua Madre che mi dica quali cose più ti dispiacciano. E perchè il demonio ricusava di rispondere, il Servo di Dio insistette: Tu mel devi dire in virtù dei Nomi di Gesù e di Maria. Stretto per tale intimazione, il demonio finalmente rispose: Io te le manifesterò, ma voglio che tu non le palesi a nessuno. E Frat'Umile: Orsù, di' pure. Ma guardati bene, replicò il diavolo, a non le palesare a persona che sia, perchè se ciò farai, saprò bene io farti soffrire crudelissimi tormenti. E Frat'Umile a lui: Tu non farai contro di me più di quello, che ti permetterà Sua Divina Maestà. Il Demonio prese allora a dire: Due sono le cose, che più mi dispiacciono; la prima si è il vedermi strappare di mano un'anima, che per molti anni era stata in mio potere, e per la quale mi era con ogni sforzo adoperato, affinchè non mi fuggisse via: e se avessi autorità su quel confessore, che quasi in un istante per virtù della sacramentale assoluzione me la rapì, in un tratto lo sbranerei. L'altra cosa che più mi dispiace si è l'esortare il peccatore, che già cammina di male in peggio nella via del peccato, a lasciare le cattive occasioni e a convertirsi; e se stesse in mio potere, ridurrei in mille pezzi chi a ciò fare lo esorta. E detto questo disparve. Il Servo di Dio, disprezzando le minaccie del demonio, il giorno seguente alla presenza di tutti i religiosi raccontò il discorso tenutogli da quel tristo, prendendo di qui motivo ad esortare i sacerdoti ad attendere con assiduità alle confessioni pel gran frutto, che ne deriva nelle anime. Ma ritornato che fu in cella, il diavolo non tardò molto a comparirgli di nuovo, e tutto sdegnato: Orsù, gli disse, giacché tu non mi hai mantenuta la parola, ora ti farò provare le pene dell inferno. E Frat'Umile, conservando la sua solita tranquillità di animo, gli rispose: Fa tutto quello, che sua Divina Maestà ti permette di fare; e nel medesimo istante gli si spalancò di sotto ai piedi una spaventosa voragine ripiena di varii e insopportabili tormenti, dopo di che il demonio gli si tolse dagli occhi con romoroso fracasso, lasciandogli nella cella un intollerabile puzzo.
Un'altra volta essendo il Servo di Dio gravemente infermo, il demonio gli entrò in cella e l'oppresse talmente al cuore che non poteva proferir parola, né tampoco respirare. Per buon tratto di tempo durò in quell'agonia, finchè poi gli apparve la SS. Vergine, la quale lo liberò da quel tormento.
Altre volte invece gli compariva in forma di leone o di altri animali, sia in cella, sia in chiesa per disturbarlo dall'orazione, ma egli senza lasciarsi prendere da timore colla disciplina li discacciava. Un giorno però fu dai demonii battuto tanto crudelmente che per sei di non potè nemmeno parlare.
Nel convento di Mesoraca sospettandosi di un novizio che fosse illuso dal demonio, i superiori vi mandarono il Servo di Dio ad esaminare da quale spirito colui fosse guidato; e poiché egli ebbe svelate le diaboliche frodi, gli spiriti infernali si sdegnarono tanto contro di lui che per parecchie notti continuarono a bastonarlo, e quindi per molto tempo in quel convento, allorché i religiosi facevano di notte la disciplina, da mano invisibile venivano slanciate contro di loro in grande quantità delle grosse pietre, dalle quali però il Signore non permise che alcuno rimanesse mai offeso. Nè questa persecuzione del demonio cessò fintanto che non fu rimandato colà Frat'Umile, la cui sola presenza fu bastante a liberare quei religiosi da una sì grave molestia.


Capo XII
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Del dono della scienza infusa, che ebbe Frat' Umile.

L'Apostolo S. Paolo nella prima sua lettera a quei di Corinto, parlando dell' ammirabile economia di Dio nella dispensazione dei suoi doni, ci fa sapere essere consueto stile della divina provvidenza di scegliere a strumento della sua gloria non coloro, che per potenza o per nobiltà o per altre prerogative levano presso il mondo grande fama di sè, ma quelli i quali, deboli in apparenza e spregevoli, il mondo non cura e tiene a vile, per confondere in tal modo la stolta sapienza del secolo e per fiaccarne la vantata possanza. Or, se in altri mai, ciò si vide luminosamente avverato nel nostro Frat'Umile, nel quale il Signore versò, a cosi dire, a piene mani le dovizie della sua grazia e i tesori dei doni più singolari.
Per cominciare pertanto da quello dello scienza infusa, non ci recherà meraviglia che un uomo qual'era Frat'Umile, quasi abitualmente assorto in altissime estasi e cosi unito al suo Dio per la contemplazione, da poter ripetere col citato Apostolo che la sua conversazione era nei cieli, fosse tanto addentro nella cognizione dei più reconditi misteri della nostra Religione santissima da doverne stupire i più insigni teologi. Imperocché non attingeva egli la sua celeste dottrina ai libri degli uomini, che non sono che rivi, bensì alla fonte stessa della sapienza, la quale quanto è restia di far copia di sè ai prudenti ed ai saggi del secolo, altrettanto si comunica e si rivela ai pargoli, cioè ai semplici e agli umili. Infatti il Servo di Dio, perchè destinato, appena uscito d'infanzia, a guardare gli armenti, e quindi a maneggiare il vomero e la marra, e poscia nel chiostro occupato sempre o nell'orto o nella cucina o in altri bassi servigii, mai non aveva usato alle scuole e nè tampoco aveva appreso a rilevare le lettere dell'alfabeto. Oltracciò la natura eragli stata così avara in quanto allo sviluppo delle intellettuali facoltà che ad un ingegno tardissimo andava congiunta in lui una memoria altrettanto infelice. E codesto appunto fu l'uomo su cui Iddio volse lo sguardo per farne un prodigio di sapienza. In conferma di ciò abbiamo molti fatti, alcuni dei quali verrò qui brevemente narrando.
Trovandosi una volta Frat'Umile di passaggio nella città di Reggio nella Calabria Ulteriore, quell'Arcivescovo, mosso dalla grande fama che ne correva della sua straordinaria scienza, fece convocare molti sacerdoti di gran dottrina, sì secolari che regolari, affinchè entrassero a disputare con lui su qualche questione teologica. L' argomento su cui cadde la disputa, riguardava i misteri della predestinazione e dell'Incarnazione del Verbo; e molti e difficili dubbii vennero proposti da sciogliere al Servo di Dio. Il principale oppositore alle risposte che ne dava Frat'Umile incalzava con altre sottili obbiezioni, le quali altresì erano da lui mirabilmente sciolte; ma quando egli aveva esaurita la dottrina voluta per rispondere, con molta umiltà conchiudeva: Io ho dato la risposta; ma essendo ignorante, mi posso ingannare; laddove Vostra Paternità, che è letterata e dotta, non può prendere abbaglio. Questo successe in molte repliche, cosicché l'Arcivescovo vedendo che le profonde di lui risposte non lasciavano più luogo ad opporre, decideva col dire: Ha risposto bene, passate ad altre questioni. Per lo che non si può esprimere a parole la meraviglia di quei teologi all'udire un idiota, qual era Frat'Umile, ragionare con si rara precisione e solidità intorno ad argomenti tanto ardui. Basti il dire che l'Arcivescovo stesso lo volle accompagnare fino al cortile, e non essendo possibile al Servo di Dio di ritornare al Convento a piedi per la sterminata folla di gente che lo stava aspettando, ve lo fece condurre colla sua carrozza; alla quale circostanza la divozione del popolo trascorse tant'oltre, che si tagliarono perfino le cortine ed il cuoio che ricopriva la carrozza, e si conservarono quali reliquie, solo perchè erano state toccate dal sant'uomo.
Il P. Adriano da Napoli, predicatore ai suoi tempi di gran grido, essendo andato a Bisignano per predicarvi una quaresima, nè prestando troppa fede a quel molto che comunemente si diceva della scienza di Frat'Umile, volle egli stesso farne sperimento col domandargli la ragione, per cui mentre il divin Redentore si battezzava dal Battista nel Giordano, lo Spirito Santo gli apparve sul capo in forma di colomba. E Frat'Umile per ben tre quarti d'ora discorse su tale argomento con tanta profusione di dottrina teologica e scritturale, che quel Padre per lo stupore non potè trattenersi dall' esclamare: Grande Iddio! io ho letto teologia per lo spazio di venti anni, e non sono pellegrino nelle sacre scritture; eppure confesso che sono un ignorante in paragone di questo semplice fraticello.
A simile prova fu messo nel convento di Cosenza da alcuni lettori di teologia, i quali dopo averlo interrogato su parecchie delle più ardue questioni, che la scienza teologica possa presentare, rimasero talmente commossi all' udirlo rispondere con tanta esattezza e facondia che uscirono piangendo e dando lode a Dio, il quale si rendeva cosi ammirabile nei suoi santi.
Alcuni letterati della medesima città di Cosenza, a cui pareva che dovesse essere oltre la verità quanto si veniva dicendo del portentoso sapere del Servo di Dio, lo ponevano in derisione e procuravano di screditarlo anche appresso gli altri. Or a cotestoro venne vaghezza un giorno di entrare in disputa con essolui, e messisi tra loro in accordo, andarono al convento per discorrere col Servo di Dio nel perverso intendimento di confonderlo coi loro sofismi, per quindi trarne motivo di sparlare pubblicamente contro di lui. Ma ben altrimenti andò la cosa, imperocché Frat'Umile seppe coi suoi argomenti cosi bene stringerli ai panni, che quei presuntuosi, malgrado ogni sforzo per non darsi per vinti, non sapendo alla fine che rispon- dere, dovettero confessare di essere in paragone di lui tanti ignoranti, e pagarono la loro temeraria baldanza con una sì solenne umiliazione. La quale tuttavia tornò loro di molto giovamento, essendo riuscito a Frat'Umile di ritrarli da certe fonti pericolose a cui attingevano le loro dottrine, e di renderli cauti a non fare a fidanza per l'avvenire con ogni libro.
In Napoli nel convento di S. Maria della Salute gli furono proposti alcuni dubbii molto astrusi alla presenza di Monsignor Campanile Inquisitore, del P. Benedetto Mandini Teatino, uomo di molte lettere, del P. Dionisio da Canosa e di altri ancora, ed egli, stando in estasi, mirabilmente sciolse ogni dubbio con istupore di tutti.
Mentre negli ultimi tempi di sua vita dimorava in Pozzuoli a motivo delle sue infermità, essendosi recato per consiglio dei medici alla Solfatara, molti religiosi che quivi si trovavano, come Teatini, Gerolimini e Padri dell'Oratorio, lo interrogarono su varii punti difficili della teologia, e ne ebbero tutti risposte sorprendenti. Leggesi in particolare del P. Taruggi Filippino, che poscia fu Cardinale, il quale volle farne esperienza e rimase oltremodo ammirato della sua celeste dottrina.
Nè vuolsi passare sotto silenzio un'altra meraviglia, che cioè nel ragionare di cose teologiche talvolta egli parlava in corretto latino, benché fuori dell' estasi non ne conoscesse punto.


Capo XIII
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Del dono della scrutazione dei cuori e di vedere le cose lontane.

Iddio, come con altri doni, cosi con quello della scrutazione dei cuori si è degnato di far risplendere nel suo fedel servo le ricchezze della sua liberalità. Del qual dono si legge questo di proprio che era in Frat'Umile a modo, direi quasi, di abito, cotalchè, andando taluno a discorrere con lui, un lume interno gli faceva conoscere ciò che l'altro gli avrebbe chiesto , e gli rivelava lo stato di quell'anima. La qual cosa accadeva indifferentemente con tutti, in maniera che egli stesso colla sua consueta semplicità talvolta diceva di conoscere i pensieri degli altri quasi con maggior chiarezza che non i proprii, e giunse perfino a dire che avrebbe desiderato di leggere nella propria coscienza come leggeva nelle altrui. Moltissimi fatti abbiamo in conferma di ciò, alcuni dei quali verrò qui toccando.
Un giorno mentre stava zappando nell'orto insieme con Fr. Vincenzo da Bisignano, conobbe l'interno desiderio di costui di mangiare dei fichi freschi, e salito ad una ficaia vicina ne colse alcuni e glieli presentò con gran meraviglia dell'altro.
Ad un cotal Fr. Simone da Bisignano era venuta in capo la strana idea di scoprire sotterra qualche gran tesoro, col quale si sarebbe potuto fabbricare un convento spazioso in sito eminente e di aria salubre. Frat'Umile, incontratolo nel chiostro mentre vagheggiava tali pensieri, a modo di scherzo: O paesano mio, gli disse, che bel convento potrai tu fabbricare coi tesori, che desideri scoprire. Oh! che gran bene potrai tu fare alla nostra patria. E questa fu per quel religioso una buona lezione, perchè da quel punto abbandonò quegl'inutili disegni.
Un certo P. Tommaso da Roma, che abitava in Frascati, era gravemente tentato intorno alla predestinazione. Or accadde che passasse di là il Servo di Dio, il quale la stessa sera che vi arrivò, essendo andato alla cella di quel sacerdote, senza lasciargli tempo di parlare, cosi cominciò a dirgli: Deh! P. Tommaso, troppo volete investigare i divini giudizii, volendo sapere se siate predestinato o no. Basta, basta; attendete a far bene. Il che inteso, quanto l'altro rimase consolato, essendogli a quelle parole svanita ogni tentazione, altrettanto fu ricolmo di stupore, perchè quel suo travaglio egli non lo aveva manifestato a nessuno, nemmeno al confessore.
Una certa Elisabetta Caro di Bisignano più volte si fece raccomandare alle orazioni di Frat'Umile per essere liberata da varie infermità, che le davano molto fastidio. Ma questi contro il suo solito, mai non rispondeva; del che meravigliato quel religioso che gliene faceva premura, una volta gli domandò il motivo di tale silenzio, ed egli gli rispose: Colei si è scordata della grazia, che tante volte ha chiesta a Dio di essere in questo mondo travagliata con dolori e infermità per iscampare così dalle pene dell'inferno; di che si lagna adesso? soffra e taccia. Per la quale risposta quella donna con sua gran confusione ebbe a confessare che il tutto era vero, ma che il Servo di Dio non poteva avere conosciuta la sua dimanda senza una illustrazione celeste, non avendola essa manifestata mai ad alcuno.
Fu poi frequentissimo il caso che egli scopri i pensieri occulti dei suoi, superiori, i quali essendo da lui lontani e con qualche atto interno comandandogli di venire alla loro presenza, sei vedevano subito comparire dinanzi. Occorse un giorno su tale proposito nel convento di Figline che il Servo di Dio fosse sollevato in estasi nel coro con un bastone tra le mani. Il P. Guardiano comandò ad alcuni religiosi che glielo levassero, ma internamente fece al sant'uomo un precetto che non sei lasciasse togliere. Invano quei religiosi si adoperarono per istrappare quel bastone dalle mani del Servo di Dio, e solo allora poterono averlo quando il P. Guardiano ebbe rivocato l'interno precetto.
Tiene qualche somiglianza col riferito il fatto che successe nel convento di Sezze. Essendo Frat'Umile ivi di passaggio, andò a visitarlo una persona secolare molto pia e dotata da Dio di speciali favori. Al primo vederla Frat'Umile l'abbracciò strettamente ed andò in estasi. Il P. Guardiano, che chiamavasi Eugenio da Roma, mandò un chierico ad intimargli che cessasse da quel rapimento; internamente però gli fece un comando contrario. Vi andò il chierico, ma non fu ubbidito: vi tornò una seconda volta, e nulla ottenne; finalmente vi ritornò una terza, e perchè intanto il P. Guardiano aveva rivocato il comando contrario, Frat' Umile ritornò tosto ai sensi.
Una volta, mentre era in viaggio per la Calabria Ulteriore, il sacerdote, a cui serviva di compagno, internamente gli comandò che arrivato che fosse ad un determinato luogo non passasse più oltre, ma ivi si fermasse colle mani giunte avanti il petto. E tanto appunto Frat'Umile esegui, ed avendolo quel sacerdote interrogato del motivo di quel suo fermarsi intempestivo, egli prontamente gli rispose: Eseguisco, Padre, quanto mi avete comandato.
Il dono poi di vedere le cose lontane era talmente abituale nel Servo di Dio che ogniqualvolta, o per beneficio del prossimo, o per qual si fosse altro lodevole motivo, egli avesse desiderato di conoscere qualche cosa occulta o lontana, col solo invocare i SS. Nomi di Gesù e di Maria la vedeva dinanzi a sè mentalmente, siccome parecchi fatti in diverse circostanze lo manifestarono. Cosi conobbe in ispirito la malattia del P. Dionisio da Canosa, sopraggiuntagli nel viaggio che faceva verso Napoli di ritorno da Roma, e l'annunziò ai suoi confratelli perchè pregassero per lui. Vide un nostro chierico di nome Fr. Francesco da Bisignano, il quale era morto di fresco, adorno di una veste candidissima, e risplendente come il sole. Vide pure l'anima del novizio Fr. Domenico da Bisignano volarsene direttamente al paradiso. Leggesi eziandio che i campagnuoli de' dintorni di Bisignano, se per qualche accidente si fosse smarrita qualcuna delle loro bestie, ricorrevano confidentemente a Frat'Umile, perchè ne indicasse il luogo ove erano nascoste, ed egli le faceva loro trovare o chiuse dentro qualche caverna, o sbandate in qualche balza di monte, o menate via fino a sessanta miglia di distanza.


Capo XIV
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Dello spirito di profezia, di cui Frat'Umile fu dotato.

Quantunque da quello che si è narrato fin qui ognuno abbia potuto facilmente persuadersi che Frat'Umile, come in altri doni, cosi in quello della profezia fu ammirabile; parmi tuttavia conveniente accennare alcuni almeno dei principali fatti, che a questo dono si riferiscono.
D. Giovanni Greco, chierico secolare di Bisignano, nutriva gran desiderio di entrare nella nostra Riforma. Ora essendo un giorno venuto con altri suoi coetanei al convento, un religioso additandolo al Servo di Dio gli disse come tra breve sarebbe entrato nell'Ordine. Ma il sant'uomo, guardatolo un poco, no, no, disse, sarà prete e parroco di questa città. E così fu, perchè, mutata risoluzione, quegli non pensò più di rendersi religioso, e a suo tempo fu ordinato sacerdote, e quindi divenne parroco di Bisignano, come Frat'Umile tanti anni innanzi aveva predetto.
Diego Branca, allora giovane pastorello, fu dalla madre presentato un giorno al Servo di Dio, perchè glielo benedicesse. Il quale, illuminato da lume profetico, ponendogli la mano sul capo, gli disse: Confida, o figlio, nella provvidenza e misericordia di Dio, perocché tu diverrai sacerdote. Ma perchè quella profezia sembrava impossibile ad avverarsi, il fanciullo con ingenua semplicità soggiunse: Come può ciò avvenire, se io non so nè leggere, nè scrivere. A cui Frat'Umile: Tanto accadrà e l'aiuto divino non ti verrà meno. E in effetto, essendosi qualche tempo dopo posto al servizio del Seminario , quivi manifestatasi la sua buona indole e l'attitudine che aveva allo studio, si fece iniziare nelle lettere, finché poi fu promosso al sacerdozio e vi menò sino alla morte un tenore di vita molto esemplare.
Ad Angelica Loisi predisse che avrebbe dato alla luce un figlio con queste due considerevoli circostanze che, essendo ella ossessa, avrebbe più volte gettato sul fuoco il bambino, senza però ch'egli ne riportasse mai alcuna lesione, e che a suo tempo quel suo figlio sarebbe stato parroco: il che si verificò poi intieramente.
In un' altra occasione predisse alla medesima Angelica che avrebbe partorito tre figli maschi, ma che il suocero, che tanto li desiderava , non li avrebbe veduti. E cosi fu, essendo questi premorto al loro nascimento.
Consolò Marco Loise, a cui era stato ucciso l'unico figlio, col predirgli che il Signore gliene avrebbe concessi degli altri; la qual predizione, benché sembrasse fuori d'ogni probabilità per essere la sua moglie molto inoltrata negli anni, ebbe nondimeno il suo avveramento quando, dopo la morte di quella, ne prese una seconda, la quale lo fece padre di quattro figliuoli.
Avendogli il P. Vicario Generale dell' Ordine ingiunto di pregare per la sanità del Cardinale Ludovisi nipote di Gregorio XV, il quale era in grave pericolo di vita, disse espressamente che di quella infermità non sarebbe morto; e difatti guarì.
Al P. Bernardino da Bisignano, allora semplice chierico, esortandolo ad applicarsi con assiduità allo studio, predisse che quarant'anni dopo la sua morte sarebbe stato eletto Procuratore Generale della Riforma; e tanto appunto avvenne nel dieci novembre 1677.
Un anno prima che accadesse, predisse lo spaventoso terremoto, che desolò le Calabrie, al quale alludendo, spesso ripeteva sospirando: Povera Calabria, da qui ad un anno sarai perseguitata senza vedere chi ti perseguita. Avendogli un certo Fr. Paolo da Castelfranco domandato un giorno, ed era nel mese di maggio, che cosa pensasse intorno alla guerra che allora ardeva tra gli Spagnuoli ed i Francesi nelle terre del Milanese, egli profetizzò con precisione che nel giorno dell'ottava di S. Antonio di Padova si sarebbe data una grande battaglia con molta strage d'ambe le parti. E in quel dì appunto, come si seppe di poi, ebbe luogo un combattimento accanito.
Predisse che dei tre conventi, i quali a quell'epoca esistevano nella terra di Pietrafitta, tra poco non vi sarebbe rimasto che il nostro; la qual cosa, che allora pareva del tutto improbabile, alcuni anni appresso si vide verificata, avendo i PP. Cappuccini spontaneamente abbandonato il proprio, ed essendo l'altro dei PP. Domenicani stato soppresso sotto Innocenzo X.
Nel maggio del 1622 predisse che nel prossimo agosto sarebbe succeduta nell'Ordine una mutazione impreveduta di Superiori la quale si verificò nel giorno 28 del detto mese, essendo stato al P. Antonio da Ravenna Vicario Generale della Riforma sostituito il P. Luigi dalla Croce. A questo poi profetizzò le molte tribolazioni, che avrebbe sofferto nel suo governo.
Fra tutte però merita speciale menzione la meravigliosa profezia, ch'egli fece intorno al tempo in cui si sarebbero istituiti i processi per la sua canonizzazione ed alle persone, che si sarebbero adoperate per trattare questo negozio.
Piacemi riportarla colle parole stesse, con cui venne deposta nei processi da quella sua avventurata nipote Francesca Rossano, donna pia e di molta semplicità, alla quale egli la fece. « Pochi giorni prima di morire, cosi adunque nei processi: «detto Frat'Umile mi mandò a chiamare, ed essendo io andata alla chiesa di questo convento della Riforma, trovai il detto Frat'Umile al cancello, che sta innanzi l'altare maggiore, ed essendomeli io accostata, mi disse: Figliuola, sappi che tra dieci giorni mi chiamerà Dio benedetto all'altra vita, nè tu mi vedrai allora, perchè ti troverai inferma. E perchè nessuno dei miei parenti si troverà vivo nel tempo, in cui piacerà a Dio che si pigli l'informazione della mia vita, se non che tu e Tommaso tuo fratello, perciò voglio dirti che le cose d operate da me per virtù della misericordia e bontà infinita di Dio, il quale ha voluto operare le sue magnificenze per mezzo di me indegno suo servo, per essere peccatore più d'ogni altro, non le palesiate a persona alcuna, e nemmeno palesiate quello che sono per dirvi adesso. Nasceranno in questa città di Bisignano due, uno che si chiamerà Francesco Locchi, e l'altro Giuseppe Cosentino; ed è nato un altro, che si chiama Bernardino Castagnaro; e tutti e tre saranno sacerdoti. Il primo nato farà l'uffizio di vicario e giudice delegato del Vescovo: il secondo sarà promotore fiscale in detta Causa; ed il terzo sarà notario apostolico, e servirà di cancelliere in essa informazione: e tutto questo succederà da qui a quarantasette anni, ritrovandosi guardiano in questo convento il P. Paolo dei Magli, e il Procuratore, ad istanza del quale si piglierà detta informazione, colla procura speciale, sarà il P. Antonio da S. Lorenzo, il quale ancora ha da nascere, e vi assisterà mandato a questo effetto dal P. Bernardino da Bisignano, oggi chierico della Riforma, che si troverà in quel tempo in Roma, dopo essere stato Procuratore Generale e Provinciale della Provincia di Roma, e il P. Bernardino da Paterno. E allora voglio che tu dica questo quando dal detto vicario e delegato ti sarà dato il giuramento e ti sarà fatto ordine, sotto pena di scomunica, di dire la verità». Questo mirabile complesso di predizioni si vide poi intieramente avverato.


Capo XV
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Di alcuni miracoli operati da Frat'Umile in vita.

Moltissimi sono i miracoli operati da Frat'Umile in vita a vantaggio del prossimo, i quali, poiché porterebbe troppo in lungo se volessi tutti riferirli, qui semplicemente accennerò, contentandomi di narrarne alcuni dei principali. E primieramente per ciò che spetta a guarigioni, molti già disperati dai medici riebbero la sanità colla sola imposizione delle mani del Servo di Dio, o con qualche breve preghiera o con un segno di croce fatto da lui sopra le parti inferme. Anzi alcuni furono istantaneamente sanati col solo toccare qualche cosa già da lui usata, come accadde a Frat'Andrea da Bisignano, che guari di una mortale infermità ponendosi sul corpo un pezzo di tela datagli dal Servo di Dio; e ad Orazio Galentano il quale si liberò di una postema pericolosissima coli' applicarsi alla gola un bastoncello, di cui lo stesso Servo di Dio soleva servirsi.
Altri miracoli pure di diversa natura si leggono operati dal nostro Frat'Umile. Incontratosi un dì in viaggio in alquanti fanciulli che stavano giuocando, nell' interrogare un di loro si accorse che esso era sordo e muto. Mosso a compassione della sventura di quel misero, l'invitò a recitare la salutazione angelica. Mirabil cosa! Quel fanciullo snodò tosto la lingua e recitò l' Ave Maria distintamente, e da quel momento riebbe l'udito e la favella.
Ned è meno mirabile ciò, che gli occorse presso l'ospedale di S. Pietro nella sua patria. Mentre egli un giorno passava di là, un povero storpio essendosene accorto, come meglio potè, si trascinò fino ai suoi piedi, e piangendo lo supplicò ad avere pietà della sua disgrazia, e ad impetrargli da Dio la sanità. Frat'Umile a quella vista ne fu impietosito, e presolo per la mano, per tre volte gli disse che sorgesse, e alla terza quell'infelice si alzò in piedi con meraviglia di tutti già perfettamente raddrizzato.
A questo miracolo un altro bentosto ne tenne dietro non meno strepitoso. Un cieco, che abitava nel medesimo spedale, avendo inteso della miracolosa guarigione dello storpio, volle essere portato ai piedi di Frat'Umile, perchè gli restituisse la vista. Nè la fede di quei poveretto rimase punto delusa. Il sant' uomo gli fece il segno salutifero della croce sugli occhi, e dopo averlo ammonito che in avvenire vivesse col santo timore di Dio, gli disse che aprisse gli occhi. E quegli gli apri, e trovandosi guarito, si prostrò a terra per ringraziare Iddio di si insigne benefìcio.
Diede pure la vista a Feliciana Farangola della città di S. Marco, e ad un figlioletto trienne di Veronica Rotella, amendue ciechi a nativitate. Degno è pure d'essere ricordato il fatto seguente. Un bambino, che si chiamava Antonio Ferraro, era nato con un grosso pezzo di carne attaccato alla nuca, il quale lo rendeva mostruoso. Dolentissima di ciò la madre, se lo portò un giorno alla nostra chiesa di Bisignano per aspettarvi Frat'Umile, che doveva processionalmente passare cogli altri religiosi per recarsi all' altare della B. Vergine, piena di fede che qualora le fosse riuscito di toccare il bambino coll'abito del santo religioso, la grazia sarebbe ottenuta. E la fede di quella donna meritò di essere tostamente premiata, poiché come all'avvicinarsele di Frat'Umile ella furtivamente ebbe presa la falda del mantello e posatala sul capo del bambino, quella mostruosa escrescenza d'un tratto svanì.
Prodigioso fu altresì il modo con cui salvò la vita ad una sua sorella di nome Livia. Venne costei un giorno a contesa con Lelio Rotella suo marito, il quale, trasportato dall' ira , diede di piglio ad un pugnale per immergerlo nel petto della donna. Ma buon per essa che poco prima era arrivato in sua casa il Servo di Dio, il quale nel momento che il marito stava per ferirla, esclamò: Piano, piano, Lelio; e nel punto medesimo, il pugnale, quasi che nel petto della donna avesse trovato un corpo resistente durissimo, miracolosamente si piegò, e il feritore cadde stramazzone a terra, rimanendo illesa e in piedi la donna. L' evidenza del prodigio toccò il cuore a quello sciagurato e talmente lo compunse che si gettò ai piedi di Frat'Umile, confessando l'enormità del delitto commesso, e chiedendone sincero perdono a Dio.
Non manca finalmente chi nei processi attesta che Iddio comunicò al suo servo la virtù di richiamare a vita i defonti. In effetto vi si legge aver egli colle sue orazioni risuscitato un bambino di cinque mesi, figlio di Clarice Giardino, ed un fanciullo di nome Scipione, figlio di Tecla Malagrino, la quale essendo stata eccitata a ricorrere all' intercessione di Frat'Umile, udì dirsi da lui che, tornata a casa, vi avrebbe trovato il suo figlio, lasciato già da lei come morto, nonché vivo, in perfetta salute, come fu, avendolo trovato che stava giuocando con altri fanciulli suoi coetanei.
Sopra ogni altro però degno di speciale menzione è quel singolarissimo avvenimento, col quale Iddio si compiacque di autenticare pubblicamente la santità del suo servo. Era andato un giorno a visitarlo alla porta del convento quella sua sorella Livia, poc'anzi ricordata, con una sua figliuoletta di nome Francesca. Or mentre stavano insieme trattenendosi in discorsi di spirito, quella fanciulla, cosi da Dio ispirata, come ci è lecito supporre , uscì d'improvviso in queste parole: Zio Frat'Umile, se tu fossi santo, le campane suonerebbero a gloria. Mirabile a dirsi! Non appena la fanciulla aveva proferite queste parole, che si udirono suonare le campane a festa; e perchè era fuori di tempo, a quel suono inaspettato tutti i religiosi uscirono meravigliati dalle loro celle per ricercarne il motivo. Ma la loro maraviglia crebbe a dismisura, allorché accorsi al campanile si avvidero che le campane suonavano da sè senz'essere punto mosse da chicchessia. Andati poi alla porta del convento, vi trovarono il sant'uomo in ginocchio colla faccia a terra, vergognoso di sé stesso per la molta confusione e le pie donne stupefatte per la grandezza e novità del miracolo, a cui erano state presenti, dalle quali pure intesero come era andata la cosa.


Capo XVI
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Ultimi anni della vita di Frat'Umile e sua felicissima morte.

Le abituali infermità, che il Servo di Dio da più anni soffriva, avevano determinato, come altrove si accennò, i suoi superiori di rimandarlo nella Calabria. Per lo stesso motivo fu più volte mutato di convento, e quindi rimandato a Napoli, donde poi partì per Pozzuoli ad intraprendervi la cura dei bagni; ma non avendone per la salute ritratto alcun vantaggio, si ridusse finalmente al convento di sua patria. L'ultimo anno che visse fu per lui una serie continua di patimenti, e pei suoi confratelli una scuola non interrotta di virtù. Erasi egli ridotto a sì deplorabile stato che era una compassione a vederlo: atrocissimi dolori gli straziavano le viscere: gli umori corrotti salendogli al petto gli producevano affanni mortali e minacciavano spesso di finirlo: dai rimedii dell'arte salutare, nonché giovamento, ritraeva maggior danno; e per lo stemperamento dello stomaco era costretto a passare e cinque e sei giorni senza prendere alcun cibo, non ritenendo che le sacre specie eucaristiche, le quali prodigiosamente comunicavano al corpo bastante vigore per non venir meno. Oltracciò gli spiriti infernali con più crudeltà di prima si fecero a maltrattarlo, apparendogli con orribili visaggi, assordandolo con urli spaventosi, mettendogli le unghie addosso, battendolo spietatamente, e legandolo eziandio e trascinandolo qua e là a guisa di giumento. Ma se il corpo sentiva tutto il peso dell'afflitta umanità, lo spirito in quella vece era pronto e vigoroso, essendo spesso ricreato dalle angeliche melodie , e più di una volta pure dall' apparizione della Regina del cielo, e dello stesso Gesù Cristo. In una delle quali apparizioni essendogli stata annunziala la vicina sua morte, egli ne fu preso da tanto giubilo che poi, sollevando lo sguardo al cielo, pareva che non si potesse saziare dal ripetere: paradiso, paradiso.
In tal modo adunque il sant'uomo si veniva disponendo alla morte, allorché un giorno che era disceso alla grotta del giardino, dove, finché le forze glielo permisero, si trascinava quanto più spesso poteva, i suoi confratelli, non vedendolo più ritornare alla cella , vennero in timore di qualche sinistro e, andati alla grotta, ve lo trovarono disteso supino a terra, molle di sudore, privo della favella, cogli occhi chiusi e col petto ansante, come se fosse per esalare lo spirito. Trasportato in cella, durò in quel lagrimevole stato per ben sette giorni: e gli strani contorcimenti, che con frequenza si ripetevano, ben davano a conoscere quanto fieri dolori egli soffrisse. Alla fine riavutosi un poco, si venne a sapere ch'egli aveva più volte supplicato il Signore a fargli provare in questa vita un saggio delle pene, che i dannati soffrono nell'inferno, per avere cosi occasione di patire in ossequio alla Passione di Gesù Cristo, e che, avendolo Iddio esaudito, mentre stava in orazione nella grotta del giardino, era stato investito interiormente come da un globo di fuoco, il quale, penetrandogli nell'intimo delle viscere, per l'atrocità dello spasimo prodottogli lo aveva condotto alle estreme agonie. In pari tempo Iddio aveva data licenza ai demonii di sfogare la loro rabbia contro di lui, i quali prendendo spaventose forme di animali feroci e di orribili serpi, e percuotendolo e minacciando di soffocarlo, ne avevano fatto per tutti quei sette giorni il più crudo governo, e non avevano cessato dal maltrattarlo fino a che egli non potè invocare col cuore i santissimi nomi di Gesù e di Maria, alla quale invocazione tutta quella legione d'inferno era stata fugata d'un tratto, e gli si erano mitigati alquanto gli ardori di quel fuoco divoratore.
Questa fu l'ultima battaglia sostenuta dal Servo di Dio, il quale, benché riavutosi da quel deliquio, rimase contuttociò talmente prostrato nelle forze, da far presagire che pochi giorni ancora potevano restargli di vita. Infatti tutto il suo nutrimento ad altro non si riduceva che a qualche sorso di acqua: e la sua debolezza era cosi eccessiva che appena poteva di quando in quando replicare a voce sommessa: paradiso. Il giorno di tutti i Santi, con una vigoria che bisogna attribuire a virtù soprannaturale, si alzò dal suo letticciuolo e, disceso alla chiesa, si accostò al sacro altare insieme cogli altri religiosi, intendendo di comunicarsi per viatico, e assistè poi coi medesimi a tutte le funzioni di quel giorno. Ma questo esser doveva l'ultimo sforzo del fervoroso suo spirito; e ritornato alla cella, ricadde aggravato peggio che prima. Nei ventisei giorni che ancora sopravvisse non gustò cibo alcuno; e avendogli i medici fatto prendere non so quale medicina, dopo tre giorni di fieri dolori lo stomaco fu costretto a recerla come l'aveva ricevuta, il che pur avvenne di un poco di cibo che aveva preso per ubbidire al P. Guardiano. Fece la confessione generale, rinnovò la professione della santa Regola, e la mattina del ventisei novembre in ispirito di ubbidienza ricevette l'estrema unzione. Poco dopo, stringendo tra le mani il Crocefisso, entrò in agonia, e verso le ore nove e mezzo di quella stessa mattina, nel momento che colla campana davasi il segno dell' elevazione della sacrosanta ostia alla Messa conventuale, col sorriso in sulle labbra placidamente rese la benedetta sua anima al Creatore. Così fini di vivere il giorno 26 novembre dell' anno 1637 l'illustre figlio di S. Francesco Frat'Umile di Bisignano nell'età di cinquantacinque anni e tre mesi, ventotto dei quali ne aveva passati nella religione.
Appena spirato le sue carni, che prima erano livide ed indurite, divennero vermiglie e morbide come quelle di un fanciullo. Nell'istante medesimo che il Servo di Dio cessò di vivere un sacerdote di gran virtù chiamato P. Lodovico da Crosia, che abitava allora nel convento di S. File, fu rapito in estasi, e vide una grandissima luce e in mezzo ad essa tutto festante e giulivo il nostro Frat'Umile corteggiato da una moltitudine di angeli. E avendogli domandato dove se ne andasse, gli rispose iteratamente: al paradiso, al paradiso. Ritornato che fu quel pio sacerdote all' uso dei sensi, manifestò ai suoi confratelli l'avuta visione; e quando giunse l'annunzio della morte del Servo di Dio, si venne a rilevare che era accaduta nel momento preciso della visione.
La notizia dell'avvenuta morte del santo religioso, benché non annunziata dal solito segno della campana, rapidamente percorse la città e le terre circostanti, e in brevissimo tempo trasse al convento una gran moltitudine di gente, facendo tutti pressa per accostarsi a baciare quel sacro cadavere. Neppure i soldati chiamati a custodire il feretro bastarono a trattenere la folla che non si gettasse sopra quelle sacre spoglie, e non ne facesse a pezzi l'abito che le copriva, cosicché fu necessario rivestirle di una nuova tonica per ben tre volte, e finalmente si coprirono con un mantello.
Dai processi pur si rileva che nel tempo dell'esequie avvennero molti miracoli, tra i quali vien notato che un fanciullo cieco ricuperò istantaneamente la vista, e una donna fu liberata dallo spirito maligno, che la possedeva.
Alle esequie intervenne il Vescovo e il Magistrato della Città, e riuscirono solennissime.


Capo XVII
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Miracoli operati da Frat'Umile dopo morte.

Compiuti i funerali, il corpo del Servo di Dio fu chiuso in una cassa di legno con entrovi una lamina di piombo, dove era inciso il suo nome, e quindi deposto nella tomba comune dei frati. Ma ciò punto non tolse che la divozione verso di lui andasse ogni di più aumentando, tanto più che Iddio stesso concorreva alla glorificazione del suo servo, come i molti miracoli per intercessione di lui ottenuti ne rendono splendidissima testimonianza. I quali moltissimi essendo, mi è d'uopo restringermi a parlare di alcuni dei principali soltanto.
Antonio Luzzi in seguito ad una gravissima infermità aveva perduto l'uso della favella e contratta un'eccessiva debolezza alle ginocchia, nelle quali soffriva dolori acerbissimi, che non gli permettevano di reggersi in sulla persona. Vedendo inutile oggimai ogni umano rimedio, si appigliò ai celesti, e trascinatosi una mattina, come meglio potè, alla nostra chiesa, dopo avervi ascoltate tre sante Messe e di aver pregato sul sepolcro del Servo di Dio, quando fu in sul partire ricuperò improvvisamente la voce e fu liberato da ogni dolore, cosicché potè tornarsene a casa speditamente.
Anche Girolamo Longobucco, che da circa sei anni era muto, condotto al sepolcro di Frat' Umile e implorato il suo patrocinio, nell'istante medesimo snodò la lingua. Simile prodigio si rinnovò altresì nelle persone di Francesca lannice , Caterina Malopera e Laura de Agostino.
Ma l'efficacia della mediazione del Servo di Dio in un modo ancora più meraviglioso fu sperimentata da Maria Curta di Acri. Per una caduta da un albero molto alto era questa donna rimasta sì malconcia in tutta la persona che, oltre di aver riportate in varie parti del corpo delle gravi contusioni e ferite, perdette quasi del tutto l'uso dei sensi, e per lo spazio di ben tre mesi appena poteva dirsi che vivesse, dappoiché era divenuta cieca e sorda, nè poteva articolar parola. Durava in questo compassionevole stato, allorché capitò in Acri un certo D. Tommaso Iaquinta sacerdote di Bisignano, che andava raccogliendo limosine per promuovere la causa di Frat'Umile. Il quale essendo stato condotto a visitare l'inferma, le fece porre sul capo una immagine del Servo di Dio, e la esortò a raccomandarsegli di cuore. Ma come le fu applicata quella sacra immagine, la grazia era già ottenuta, essendoché immediatamente quell'infelice ricuperò l'uso della favella e rimase libera da ogni altro malore, nè più in appresso ebbe a dolersi di quella caduta.
Senonchè la mediazione di Frat'Umile non fu solo potente a restituire la sanità, bensì anche a ritogliere alla morte le sue prede. Ciò si vide verificato in Carlo Burlotta fanciullo trienne, il quale mentre stava scherzando in sull'orlo di un'altissima rupe, sventuratamente precipitò nel fondo della sottoposta valle, rimanendo morto in sull'istante. Occorse che in quel momento passasse di là una cotale Aurelia Mendicina, molto divota del Servo di Dio, la quale preso in sulle braccia quel fracassato corpicciuolo, gli applicò con viva fede un pezzetto del cordone usato da Frat'Umile, che ella sempre per sua divozione teneva indosso, e rivoltasi verso la nostra chiesa, dove riposano le ceneri del sant'uomo, esclamò: Ora, Frat'Umile, che si sta compilando il processo della tua vita, è tempo che tu faccia palese la tua santità. Mirabile a dirsi! non aveva ancora la donna terminata quella invocazione, e già il fanciullo aveva dato un respiro, e un momento appresso era perfettamente sano.
Fu pure restituito a vita un fanciullo chiamato Domenico Greco, che già stava disteso sopra una tavola e accomodato per essere trasportato alla chiesa, col solo applicargli l'immagine del Nostro Umile.
Feliciana Zacchini si era raccomandata al Servo di Dio per avere prole mascolina, ma quando fu in sul partorire con suo gravissimo cordoglio diede alla luce un figlio morto. Supplicò ella allora con viva fede lo stesso Servo di Dio, perchè glielo avesse risuscitato, e nel momento medesimo dell'invocazione il bambino diede segni di vita, e poi sopravvisse per molti anni.
Se non era ancora caduto vittima della morte, trovavasi però in evidentissimo pericolo di tosto cadervi un Antonio Treccia, ove il Servo di Dio non gli fosse venuto in soccorso. Costui nel ritornare un giorno da Altomonte a Bisignano, si avventurò di passare a cavallo il fiume Crate, che si era di molto ingrossato; ma, giunto ad un punto, fu travolto dalla fiumana, e si sarebbe certamente affogato, se non gli fosse riuscito di afferrare un gran tronco, che galleggiava nel mezzo del fiume. Per salvarlo gli fu gettata una grossa fune, ed essendosi con un capo di essa strettamente legato, altri per l'opposto capo della fune lo venivano tirando alla riva. Se non che per l'impetuosità della corrente la fune si spezzò, e quell'infelice portato via dalle acque, era in sul punto di sommergersi. In quella tremenda distretta egli invocò col cuore Frat'Umile, e nell'istante medesimo, come se una robusta mano lo avesse preso pei capelli, si vide sollevato sopra le onde e spinto vicino alla riva, dove potè essere afferrato per un braccio e tirato a salvamento.
Spesse volte pure il Servo di Dio apparve a chi lo invocava; e tali apparizioni erano sempre seguite dal conseguimento della grazia desiderata. Lasciando le molte apparizioni ad infermi, mi pare degna di speciale memoria quella, di cui fu fatto degno un cotal Francesco Rizzo. Questi nel ritornarsene da Cosenza a Bisignano, essendo la notte innanzi piovuto a dirotto, aveva trovato il fiume Moccone, che d'ordinario corre assai rapido, tanto gonfio e precipitoso che, tentatone una volta il guado, non vi si arrischiò di ritentarlo una seconda pel gran pericolo di essere portato via dalla fiumana. Ma perchè pur gli premeva di tornare a Bisignano, non avendo alcun umano partito a cui appigliarsi, ricorse a Frat'Umile, affinchè lo soccorresse in quel suo bisogno. Nè fu tardo il Servo di Dio a venirgli in aiuto, essendogli in sull'istante medesimo apparso all'opposta riva del fiume, dalla quale lo invitò a passare senza timore. E perchè a Francesco non bastava l'animo di mettersi a quella pruova, Frat'Umile passò all'altra sponda e presolo per mano, insieme con lui ripassò il guado, e non solo senza alcun pericolo, ma, ciò che fa crescere la meraviglia, a piedi asciutti.
Talora il Servo di Dio apparve anche non invocato ai suoi divoti per sottrarli a qualche imminente pericolo, come accadde a D. Giovanni Cristiano, Economo della chiesa di S. Giambattista di Bisignano. La notte dell'otto gennaio del 1692, mentre costui stava dormendo, parvegli di vedere nel sonno un religioso di San Francesco in tutto simile nei lineamenti all'immagine di Frat'Umile, che pendeva da una parete della sua stanza, e di udirsi dire queste parole: D. Giovanni lèvati, perchè la tua casa precipita. Si svegliò a tale intimazione quel sacerdote, ma, come suole avvenire in simili casi, tenendola in conto di puro sogno, si adagiò nuovamente per ripigliare il sonno. Senonchè poco andò che fu riscosso dalla stessa voce, che gli ripetè: D. Giovanni lèvati, che la tua casa adesso adesso rovina. Accese egli allora il lume, e si fece a ricercare per la casa se vi fossero indizii che minacciasse di cadere, e non avendone scoperto alcuno, tornò tranquillamente a coricarsi e riprese sonno, quand'ecco comparirgli per la terza volta lo stesso religioso, il quale, afferratolo per un braccio, gli fece forza perchè si togliesse in fretta di là, ripetendogli le medesime parole. Spaventato il sacerdote, sbalzò tosto dal letto, e fatti appena pochi passi, quel muro, a cui il letto stava appoggiato, rovinò d'un colpo, traendo seco il letto e quanto altro vi aveva, e rimanendo intatta l'altra parte della stanza dov'egli si era ritirato. Nè qui fini il prodigio. Nell'esaminare di poi i danni arrecati alla casa per quella caduta, si avvide pure che il vino gli si era intorbidato, e dava indizii di corrompersi del tutto. Allora egli si rivolse al suo liberatore, promettendogli che qualora glielo avesse preservato, gliene avrebbe dato in carità ai suoi frati un barile per ogni botte. E tenendosi certo della grazia, ne avvisò i religiosi; ma perchè questi non portarono che due barili , non nè potè spillare che da due botti ; e cosi il vino contenuto in queste due si conservò sano, mentre al contrario quello di due altre, da cui non ne aveva levato pei religiosi, si guastò affatto.
Oltre ai narrati con altri miracoli ancora Iddio si degnò di confermare ed accrescere l'opinione di santità, che universalmente si aveva del suo servo, raccogliendosi dai processi che molti per disperate malattie già prossimi a morire coll'applicazione dell'immagine o di qualche reliquia o di qualunque altra cosa da lui usata, come il bastone, gli zoccoli, la zappa, ed anche colla semplice sua invocazione, furono istantaneamente guariti.
Ma a compimento della presente materia conviene che accenni in questo luogo della fonte prodigiosa scoperta dal nostro Venerabile nell' orto del convento di Bisignano. Fin dai primi anni che dimorò nell'accennato convento, egli nel dissodare un tratto di terreno tutto ingombro di spine, vi aveva scoperto una vena di limpida e freschissima acqua, la quale cominciò ben presto a divenire oggetto di divozione presso i fedeli, essendosi riconosciuta efficacissima contro ogni malore in chi con viva fede ne avesse bevuto. Infatti nei processi si tenne memoria di tre guarigioni istantanee da gravi malattie, accadute nelle persone di Giacomo Gioppa, Umile Freccia e Daniele Garofali, col solo gustare di quell'acqua. Anzi nell' ultima guarigione si scoperse un'altra meraviglia ancora, perchè quell'acqua, essendo stata portata lontana ben otto miglia, quante cioè ne corrono da Bisignano a Torano, dove era l'infermo, benché fosse esposta al sole e nel cuore dell'estate e nelle ore più calde, si conservò tuttavia in tanta freschezza, come se in quel momento fosse stata attinta alla fonte. Di qua quella vena di acqua prese a denominarsi la fonte di Frat'Umile, sotto il qual nome continua ad esser conosciuta; nè la divozione del popolo si è punto raffreddata, cosicché anche ai nostri giorni si manda di quell'acqua in lontani paesi, e vi si sperimenta, da chi ne abbia fede, la medesima efficacia, e vi si osserva lo stesso prodigio del mantenersi per più anni cosi fresca e limpida, come appena tratta dalla sorgente.
Nè devo passare sotto silenzio un'altra cosa, che comunemente si giudica tenere del sovrumano, ed è che nell'accennato fonte s'innalza tuttavia una croce di legno, la quale, secondo la tradizione, vuolsi che conti più di due secoli dacché vi fu collocata; e quantunque in parte stia sommersa nell'acqua, è però ancora cosi sana come se vi fosse stata posta ieri. Inoltre conservasi nel nostro convento di Bisignano una piccola zappa; di cui si serviva il Servo di Dio, e che perciò ordinariamente vien detta la zappettina di Frat'Umile, la quale i campagnuoli di quei dintorni vanno a prendere ogni qualvolta gl'insetti minacciano di recare danno ai seminati, e con essa rompendo il terreno, con ciò solo si salvano da quei nocivi animaletti.

Capo XVIII
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Processi istituiti per la beatificazione di Frat'Umile.

Quantunque le grazie per poco innumerabili, che i fedeli continuamente ottenevano da Dio pei meriti di Frat'Umile, ne avessero non solo nelle Calabrie, ma per tutto il rimanente dell'Italia ed anche fuori di essa divulgata la fama della sua esimia santità; tuttavia nei decreti della divina provvidenza era scritto che per lungo tratto di tempo non si pensasse d'introdurre presso la Sacra Congregazione dei Riti questa causa, che pure per ogni titolo sarebbe stata splendidissima. Infatti ben molti anni trascorsero dalla morte del Servo di Dio prima che si iniziassero le pratiche per introdurla, le quali non cominciarono che nell'anno 1684, in cui il P. Bernardino da Bisignano, già Procuratore Generale della Riforma, potè finalmente ottenere che si desse principio alla compilazione dei processi, venendosi per tal modo a verificare appuntino la profezia di Frat'Umile, che i processi per la sua beatificazione non si sarebbero istituiti che quarantasette anni dopo la sua morte, e per l'impegno di quel suo confratello e concittadino, come altrove abbiamo accennato.
Compilati pertanto, secondo le consuete norme, i processi che si dicono ordinarii, e quindi gli Apostolici, si diede mano alla discussione delle virtù. A tal uopo l'anno 1763 si tenne la prima Congregazione detta Antipreparatoria, sotto la presidenza della s. m. di Clemente XIV, allora Cardinale Ganganelli. La seconda poi, cioè la Preparatoria, ebbe luogo nel palazzo Vaticano l'anno 1776; la terza finalmente, ossia la Generale, fu convocata l'anno 1780, in seguito alla quale lo stesso anno il Sommo Pontefice Pio VI, nel giorno sacro alla memoria del Serafico Patriarca, recatosi al tempio di S. Maria di Araceli, vi promulgò il decreto sulla eroicità delle virtù esercitate dal Servo di Dio Frat'Umile.
Dopo ciò altro non rimaneva perchè il Servo di Dio venisse elevato all'onore degli altari, che la discussione e l'approvazione dei miracoli. Ma mentre ognuno si confortava nella speranza che questo giorno tanto desiderato dovesse sorgere tra breve, la furiosa tempesta scatenatasi poco dopo contro la Chiesa e contro gli Ordini religiosi interruppe ogni cosa, e la Causa del nostro Frat'Umile insieme con tutte le altre dovette necessariamente restare sospesa. Vero è però che quando a Dio piacque di disperdere quel turbine devastatore e di ridonare la pace alla combattuta sua sposa, non si mancò di riassumere le pratiche per condurre a compimento questa causa, ma esse non sortirono per allora il desiderato intento.
Tuttavia qualunque ne possa essere stato il motivo, noi dobbiamo certamente adorare anche in ciò una disposizione ammirabile della Provvidenza divina, la quale in questi quant'altri mai luttuosissimi tempi, in cui ogni vestigio di soprannaturale si vorrebbe cancellare dalle menti degli uomini, volle forse riservata la glorificazione di un uomo, la cui vita essendo stata un'estasi quasi non mai interrotta, si può affermare che sia un'apologia eloquente del soprannaturalismo, ed un nuovo splendidissimo argomento di fatto, che fa un meraviglioso contrasto colle fallaci e riprovate dottrine, che nei nostri giorni si spargono dai nemici della Chiesa, e che si fanno tanto largo nella società con immensa rovina delle anime.

Capo XIX
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Miracoli proposti alla S. Congregazione dei Riti per la beatificazione del Servo di Dio.

Giuseppe Panza di Bisignano, fanciulletto in sui sette anni, ammalò di lebbra, la quale ostinatamente resistendo ad ogni rimedio dell'arte salutare, ne ridusse il corpo tutto una piaga, sicché metteva orrore al solo vederlo, parendo appena uscito dal fuoco. A rendere più compassionevole lo stato dell'infermo, gli si ritirarono talmente i nervi da non poter muovere un membro senza soffrirne dolori acerbissimi. Avendo il medico, dopo sette mesi d'inutile cura, dichiarata quella malattia al tutto insanabile, i genitori del fanciullo erano venuti nella massima afflizione; allorché Iddio dispose che capitasse alla loro casa, reduce da Roma, un nostro fratel laico loro parente, che si chiamava fr. Bartolomeo da Bisignano, il quale li consigliò a raccomandare con cinque Pater ed Ave l'infermo figliuoletto al loro santo compaesano Fr. Umile. Senonchè, distratti per avventura dalla stessa veemenza dell'afflizione, che li opprimeva, pel momento essi non tennero conto di quel consiglio. Quando però nella prossima notte il fanciullo cominciò dare in disperate grida pei dolori che gli si erano esacerbati, ben allora si risovvenne la madre del consiglio, che fr. Bartolomeo le aveva suggerito il di innanzi, e senza porre tempo di mezzo si fece a recitare i cinque Pater ed Ave, implorando con viva fede il patrocinio del Servo di Dio. Il quale quanto gradisse l'invocazione dell'afflitta donna, ben lo si vide in sull'istante. Imperocché com'ella ebbe finita quella breve preghiera, il figlio fu preso da un sonno placidissimo, dal quale poi svegliatosi la seguente mattina, cosi si trovò perfettamente mondato dalla lebbra e libero da ogni altro malore, che non vi era rimasta nel suo corpo macchia alcuna o cicatrice che fosse, ed i nervi erano ritornati al loro stato naturale, di maniera che quella mattina stessa egli potè agile e franco condursi al sepolcro del Servo di Dio a rendergli grazie della sanità, che il Signore ad intercessione di lui gli aveva conceduta.
Il secondo miracolo accadde nella persona di Beatrice Lerra, pur di Bisignano, ed è il seguente. Costei, donna di circa cinquantanni, giaceva a letto in grave pericolo di vita per una febbre maligna, allorché le sopravvenne una parotide, la quale cominciando a manifestarlesi dietro l'orecchio sinistro con un forte accesso nel petto, sì deformemente le venne gonfiando prima la testa e il collo, e quindi tutto il corpo fino al ventre, che la testa in particolare era divenuta grossa come quella di un bue. Intanto l'inferma aveva già perduto l'uso della lingua; ed il medico, dopo avere espressamente dichiarato essere inutile lo sperare di sottrarla alla morte, l'aveva esortata a disporsi senza indugio a ricevere gli estremi conforti della nostra Religione santissima. Ma la moribonda aveva sempre nutrito uno speciale divozione verso Frat'Umile, una corda del quale come insigne reliquia con somma riverenza teneva appesa al muro ad un fianco del letto. Or, come Iddio volle, in quegli estremi momenti l'occhio le corse su quella reliquia, alla cui vista le si risvegliò tosto l'antica divozione verso il Servo del Signore, e in pari tempo senti nascersi in cuore una viva fiducia, che pei meriti di lui sarebbe al certo guarita. E poiché non poteva proferire parola, accennò agli astanti colla mano, che le consegnassero quella benedetta corda, la quale come l'ebbe, si raccomandò con atti interni di vivissima fede a Frat'Umile, applicandosela intanto intorno al collo ed all'orecchio. Mirabile a dirsi; a quel tocco prodigioso in sull'istante medesimo non pure le svani la parotide e con essa tutto quel mostruoso gonfiore, ma fu altresì liberata dalla febbre maligna, in guisa che quando l'indomani fu a lei di ritorno il medico e la trovò perfettamente risanata, egli fu il primo a dare glorio a Dio e a riconoscere in quella guarigione un vero miracolo.